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Come affrontare un evento traumatico in classe

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IL TRAUMA

La parola “trauma” viene spesso erroneamente associata al termine “stress”. Nella realtà, esiste una differenza sostanziale tra i due fenomeni; differenza che verrà qui esposta e servirà ad evidenziare il pensiero dominante del centro Eos.

Nel 1936, lo studioso Selye utilizzò per la prima volta il termine “stress” per indicare una reazione fisiologica dell’uomo a diversi stimoli (stressor) di varia natura (fisica, chimica, biologica ed emotiva). Essendo una risposta fisiologica e naturale ad un evento, lo stress non dovrebbe essere inteso come fenomeno patologico, bensì come processo che consente all’individuo di adattarsi ad una nuova condizione.

Diversamente, il termine “trauma” deriva dal greco e significa “ferita, lacerazione”. Nel corso del tempo sono state fornite svariate definizioni del concetto ma, in generale, esso può essere concepito come un’esperienza emotiva intensa, violenta ed imprevedibile, di particolare gravità che compromette il senso di stabilità e continuità fisica o psichica dell’individuo provocando un’alterazione permanente della sua capacità di adattamento. Tale risposta è conseguente, appunto, ad un avvenimento traumatico. Un avvenimento viene definito come un evento insolito che si identifica con l’eccezionale. Proprio per questo carattere di eccezionalità, l’avvenimento ha una determinata importanza per l’individuo e per la collettività in quanto porta con sé qualcosa che entra in relazione con l’apparato psichico del soggetto. Un evento è traumatico quando non trova un senso e rimane slegato all’interno dell’apparato psichico e che non è culturalmente gestito, ossia è un evento per il quale la cultura non fornisce dei nessi di significazione; nessi indispensabili all’individuo per poter elaborare l’evento.

In ambito psicologico, il trauma è stato ampiamente studiato ed approfondito. In maniera più specifica, il DSM 5 identifica le principali situazioni che possono causare la ferita traumatica: esperienze personali di eventi che possono comportare morte, lesioni o minacce alla propria integrità fisica; l’assistere ad un evento che provoca morte o lesioni di un altro soggetto; il venire a conoscenza della morte violenta e inaspettata, di grave danno, minaccia di morte o lesioni sopportate da un membro della famiglia o da un’altra persona con cui si è in relazione. Una situazione del genere potrebbe dunque comportare l’insorgere della sintomatologia tipica del disturbo post traumatico da stress (PTSD) ampiamente descritta nel DSM, secondo il quale, i sintomi tipici successivi all’evento traumatico sono: la ripetizione, in forma di ricordi intrusivi, sogni, allucinazioni, flashback; l’evitamento, legato al disagio psicologico provato all’esposizione di fattori scatenanti simili all’evento traumatico, e l’attenuazione della reattività generale, la diminuzione dell’affettività, la perdita di prospettive per il futuro. A ciò si associano segni di aumentato “arousal” in forma di alterazioni del sonno, modificazioni del tono dell’umore e della concentrazione.

Analizzando tuttavia il termine impiegato dal DSM per descrivere la sintomatologia, il lettore potrà evidenziare che esso presenta la parola “stress”, che, come enunciato in precedenza, ha un significato slegato dal termine “trauma”. Seguendo gli studi di Bailly (1992), converrebbe utilizzare il termine “sindromi psicotraumatiche”. Ciò, infatti, permetterebbe di mettere l’accento sul trauma e non sul concetto di stress, e contemporaneamente di evitare il riferimento alla nevrosi, anch’esso non funzionale, giudicato limitato e fuorviante. E’ inoltre stato dimostrato che i disturbi più frequenti dopo un trauma sono i disturbi d’ansia, le depressioni, le sindromi psicosomatiche, i disturbi del sonno e solo dopo si trova il disturbo post traumatico da stress. Per confermare la tesi di Bailly, anche lo studioso Barrois, nel 1992, ha sottolineato che il termine PTSD è inappropriato per svariate motivazioni:

  • vi è una differenza di essenza tra uno stress ed il traumatismo che invece si configura come una minaccia immediata e diretta;
  • il DSM crea una certa confusione nella definizione vera e propria di stress;
  • lo stress in nessun modo può qualificare un traumatismo.

Per questo motivo, invece di utilizzare i termini identificati dal DSM, si impiegheranno qui le parole “sindrome psicotraumatica” o “traumatismo”.

Come si può immaginare, l’esposizione ad un avvenimento traumatico comporta svariate conseguenze sul comportamento e sulla personalità dell’individuo colpito; molte ricerche sul tema hanno sottolineato infatti che la personalità di un soggetto traumatizzato sarebbe caratterizzata da un minor grado di affermazione di sé, di ambizione e di autonomia, e dal bisogno di scappare da sentimento di inferiorità.

Occorre infine fare riferimento al fatto che un trauma ha un impatto a lungo termine su molti livelli di funzionamento:

  • livello affettivo: in termini di ripiegamento su sé stessi, nervosismo, disturbi di concentrazione e flashback;
  • livello psicosociale: che si manifesta con un ritiro dalla vita sociale, dalla famiglia o dal gruppo;
  • livello professionale: vi può essere un calo del rendimento, un aumentato disinteresse ed assenze ripetute;
  • livello psicosessuale: in termini di impotenza e disinvestimento libidico;
  • livello fisico: ossia turbe psicosomatiche.

DEFUSING E DEBRIEFING: TECNICHE A CONFRONTO

Come evidenziato nel paragrafo precedente, un avvenimento per il quale la cultura non fornisce un significato potrebbe configurarsi come un evento traumatico. I numerosi studi sul tema hanno sottolineato come, adeguati progetti di prevenzione possano essere molto utili poiché consentirebbero ai partecipanti di analizzare i propri vissuti, condividerli con gli altri e vederli compresi e normalizzati.

Prima di descrivere nel dettaglio i principali interventi funzionali al superamento degli eventi drammatici, è utile introdurre il concetto di prevenzione poiché è stato dimostrato che attività preventive ben condotte riducono le sequele post traumatiche dal 20 al 5%.

Per prevenzione si intende la possibilità di rispondere ai bisogni psicosociali delle vittime nei differenti stati dell’elaborazione del processo di assimilazione dello psicotraumatismo.

Come è immaginabile, non si può concettualizzare un intervento preventivo standard da adattare a tutti i contesti. E’ tuttavia possibile, partendo dalle considerazioni fatte, concentrarsi su alcuni punti saldi:

  • gli interventi devono essere interventi psicosociali cioè occorre agire sulla struttura sociale in modo che l’apparato psichico possa confrontarsi correttamente con quanto sta accadendo;
  • le eventuali nuove strutture che si attivano per far fronte all’emergenza non devono in alcun modo sostituirsi alle strutture sociali normalmente operanti;
  • occorre porre attenzione alle attività di supervisione delle attività;
  • gli interventi devono essere diretti a tutta la popolazione colpita dall’evento traumatico;
  • è necessario operare tramite un outreach attivo, andando incontro alle vittime;
  • è fondamentale ascoltare attentamente i bisogni espressi dalla popolazione.

Infine, quando si parla di prevenzione, occorre specificarne i livelli. Esistono infatti interventi di prevenzione primaria, da attuare prima che si verifichi l’evento. Si parla di prevenzione secondaria quando si struttura un intervento diretto a tutte le vittime di un accadimento traumatico ed è volto a rispondere ai bisogni concreti delle vittime. La prevenzione terziaria include infine quei progetti condotti su vittime nelle quali è presente una forte cronicizzazione del disturbo.

Nell’ambito della prevenzione secondaria le tecniche più impiegate sono: il defusing ed il debriefing, che verranno qui analizzati nel dettaglio.

Il “defusing” (dall’inglese “defuse”, disinnescare) è un intervento breve, condotto da psicologi che lavorano all’interno di una dimensione gruppale con soggetti vittime di esperienze fortemente drammatiche.

Tale strumento è stato concepito a partire da principi teorici importanti. La letteratura, infatti, suggerisce che un evento traumatico potrebbe provocare altresì una scissione tra il versante cognitivo, legato alle conoscenze della persona, ed il versante affettivo ed emotivo. Attraverso la tecnica del defusing, messa in atto dal professionista psicologo, ossia il conduttore dell’intervento, è possibile superare la spaccatura traumatica ed alleviarne i sintomi. Per farlo, i partecipanti sono invitati a raccontare ciò che sanno dell’evento e ciò che hanno sperimentato emotivamente prima e dopo il fatto.

Nello specifico, il defusing consta di tre fasi distinte:

  • la fase dell’introduzione, che consiste in una breve presentazione dei conduttori i quali spiegano il motivo dell’incontro;
  • una fase di esplorazione degli elementi affettivi e cognitivi vissuti;
  • un’ultima fase di informazione.

Questo procedimento ha lo scopo di far emergere sia gli aspetti cognitivi, sia quelli emotivi e permette ai soggetti una preliminare elaborazione collettiva dell’evento doloroso vissuto.

Al termine del defusing, è importante che l’équipe di professionisti si riunisca per confrontarsi su quanto accaduto, sull’efficacia dell’intervento e sull’analisi delle dinamiche gruppali messe in atto.

Il confronto in effetti è molto utile per integrare i vari punti di vista dei diversi osservatori e conduttori.

Il defusing può essere erroneamente accostato al debriefing, altra nota tecnica da impiegare per supportare i partecipanti al superamento dell’esperienza traumatica. Il background teorico è il medesimo ma, attraverso questo particolare strumento, più sistematico e strutturato, i soggetti sono prima invitati a condividere ciò che sanno, dunque gli elementi cognitivi e solo successivamente sono stimolati a parlare delle proprie emozioni legate al trauma di cui sono vittime. E’ facile intuire come il debriefing sia una tecnica leggermente più complessa da attuare e richieda più tempo rispetto al defusing in quanto i soggetti sono chiamati a fornire due racconti distinti dello stesso evento. Non a caso, la tecnica di debriefing viene utilizzata con gli operatori che hanno esperito traumi di vario genere; mentre il defusing viene maggiormente impiegato con attori non direttamente protagonisti del fatto traumatico.

Nello specifico, il lavoro di debriefing comporta il passaggio attraverso sette distinte fasi:

  • introduzione;
  • fase dei fatti (si è chiamati a ricordare i fatti avvenuti);
  • fase dei pensieri (si è invitati a narrare i propri pensieri legati all’evento traumatico);
  • fase delle reazioni (comporta la narrazione delle reazioni emotive);
  • fase dell’analisi dei sintomi (la fase contempla la descrizione dei sintomi fisici avvertiti durante l’evento traumatico e nel momento attuale);
  • fase della formazione (nella quale i conduttori forniscono al gruppo consigli utili alla gestione del distress emozionale);
  • conclusione.

Nonostante le differenze più tecniche, la conclusione degli interventi di defusing e debriefing è la stessa: dopo aver raccolto ed accolto le testimonianze dei partecipanti, il conduttore normalizza il vissuto delle persone presenti in modo da aiutare a diminuire o rimodulare l’intensità delle reazioni emotive inevitabilmente generate da una situazione difficile.

Occorre ricordare che, nel mettere in pratica questi interventi, esistono delle regole da rispettare; regole che vengono solitamente esposte dal conduttore del gruppo durante la fase iniziale del lavoro.

La collaborazione, la sincerità e l’ascolto sono concetti fondamentali: è importante che tutti ascoltino, in maniera autentica e non giudicante, ciò che gli altri hanno deciso di condividere. E’ altresì richiesto ai partecipanti di rispettare il segreto professionale che vincola non solo gli psicologi ma anche tutti i presenti all’interno del gruppo. Infine, è compito del conduttore ribadire il concetto secondo il quale non è obbligatorio parlare: ognuno può farlo nelle modalità che ritiene opportune e senza venire in alcun modo giudicato bensì accolto e supportato.

L’esperienza ha dimostrato che questi interventi attuati all’interno di classi scolastiche sono efficaci poiché comportano in molti casi una prima elaborazione dei fatti e contribuiscono a rinforzare la rete di supporto sociale dei ragazzi. Gli interventi che coinvolgono l’intero gruppo, e dunque permettono di dare un senso collettivo all’avventimento, facilitano i processi di affiliazione e risocializzazione e costituiscono un rituale di per sé terapeutico.

APPLICAZIONE DI UN INTERVENTO DI DEFUSING: UN ESEMPIO CONCRETO

Questo tipo di intervento di prevenzione secondaria è stato attuato all’interno di una classe di una scuola superiore, profondamente scossa dal suicidio del tutto inaspettato di una compagna, la quale, prima di andarsene, ha pubblicato una sua foto sui social network inserendovi una didascalia per spiegare alcune motivazioni del gesto.

Questo spazio è quindi dedicato all’analisi psicologica di quanto emerso dal defusing nella classe. Sarebbe utile sottolineare che quando si parla di suicidio di un adolescente uno degli obiettivi prioritari dell’intervento è quello di evitare che i compagni di classe emulino il comportamento suicidario: la letteratura a questo proposito sottolinea come avere un amico che si suicida aumenta la probabilità che si commetta lo stesso atto; questo vale sia per le ragazze che per i ragazzi (Bearman & Moody, 2004), dal momento che la notizia così scioccante della morte di un coetaneo alimenta un distress emozionale molto intenso che potrebbe portare allo sviluppo di pensieri suicidari (Mueller & Abrutyn, 2015). Ed è proprio questo lo scopo che si è cercato di perseguire con il progetto qui descritto.

L’intervento ha visto la partecipazione della quasi totalità della classe. Le regole sono state puntualmente evidenziate dalla psicologa conduttrice e sono state positivamente comprese e soprattutto rispettate dagli studenti. Dopo qualche istante di silenzio iniziale, una studentessa ha deciso di prendere la parola e raccontare l’accaduto. Da quel momento, anche gli altri partecipanti hanno esplicitato i loro pensieri, le loro reazioni ed emozioni. Intervallati dalle riflessioni della psicologa, i racconti degli studenti hanno fatto emergere vissuti comuni: tutti i presenti hanno infatti espresso la loro incredulità di fronte al fatto compiuto, il loro dispiacere, la loro rabbia ed il loro dolore. Nessun alunno si sarebbe aspettato nulla e la domanda che si è fatta strada in ognuno di loro è: “perché?”. I ragazzi nei loro resoconti sono riusciti efficacemente a verbalizzare sia gli aspetti cognitivi, raccontando ad esempio cosa stavano facendo quando è giunta loro la notizia e cosa sapevano della vita della compagna, sia gli aspetti emotivi legati alle loro personali reazioni, riuscendo così a raggiungere l’obiettivo sotteso all’intervento stesso. Osservando le dinamiche di funzionamento del gruppo, è stato possibile notare alcuni aspetti importanti. Innanzitutto, all’interno del cerchio era presente una sedia vuota; ciò ha un significato psicologico e simbolico molto profondo su cui sarebbe interessante riflettere. Nonostante i tempi di silenzio, che potrebbero denotare un distanziamento delle persone dal fulcro del discorso, tutti gli studenti presenti erano attivati emotivamente. Anche coloro che hanno preferito non comunicare, facevano trapelare il dolore attraverso una serie di comportamenti non verbali tra cui gli occhi gonfi dalle lacrime, l’inquietudine, i movimenti del corpo e il distoglimento dello sguardo. Un aspetto su cui, a posteriori, è stata concentrata l’attenzione riguarda il fatto che nessun alunno abbia fatto chiaramente cenno alle parole “morte” e “suicidio”: atteggiamento che potrebbe denotare un forte sconvolgimento emotivo di evitamento misto a persistente incredulità.

Un altro elemento che si è notato attraverso l’osservazione dell’incontro è stato la condivisione del vissuto emotivo: gli alunni hanno saputo dare voce ad emozioni comuni: rabbia, senso di colpa, confusione e profonda tristezza. Inoltre, attraverso le storie proprie ed altrui, gli studenti hanno avuto la possibilità di riflettere sulla propria vita e questo ha particolarmente colpito alcuni di loro.

Tali racconti carichi di emozioni non del tutto metabolizzate, hanno creato un clima emotivo piuttosto gravoso che ha portato alla decisione di concedere una breve pausa al termine della quale è stato ritagliato uno spazio per concludere l’incontro. La conduttrice ha brevemente riassunto quanto emerso, facendo riflettere su come tutti abbiano sperimentato quasi le stesse sensazioni; sensazioni del tutto “normali” e legittime quando si è vittime di notizie scioccanti e drammatiche. Così facendoi ragazzi hanno avuto modo di sentirsi legittimati nella loro sofferenza.

Dopo la fase di normalizzazione, che ha segnato la fine dell’intervento, è stato comunicato un messaggio importante con lo scopo di evitare possibili emulazioni da parte dei compagni di classe: quando si è in difficoltà, occorre chiedere aiuto. L’aiuto si può trovare dappertutto e parlare di ciò che ci accade rende il nostro fardello più facile da sopportare.
In conclusione, l’intervento di defusing è risultato efficace poiché appunto ha permesso la focalizzazione sui vissuti emotivi e cognitivi di tutti e la loro condivisione. Inoltre, la possibilità di confrontarsi con il gruppo dei pari, come emerso in precedenza, ha il potere di alleviare i sintomi psicotraumatici. Tutto ciò ha portato ad una fase di normalizzazione finale che è stata ben condotta e compresa dai ragazzi.

IL VALORE DEI SOCIAL NETWORK IN ADOLESCENZA

L’evento raccontato e su cui è stata posta l’attenzione suscita parecchie riflessioni su un tema specifico ad esso legato: l’uso dei social network in adolescenza. La ragazza che si è tolta la vita, ha postato una sua foto su Instagram allegandovi una didascalia piuttosto dettagliata. Come affermato da molti studiosi, parlare di suicidio in adolescenza è considerato un tabù poiché l’immaginare che qualcuno si voglia uccidere in una fase di vita in cui si concentra il suo massimo potenziale è spaventoso ed inquietante. Ancora più inquietante è il momento in cui il desiderio di morire esce dalla sfera privata: la rete permette proprio questo passaggio. Dunque, la domanda che da un punto di vista clinico potrebbe sorgere spontanea riguarda le modalità di comunicazione dei ragazzi ed il valore che attribuiscono ai messaggi sui social. Il mondo dei social, si sa, è costellato da rischi di ogni tipo ed uno suo scorretto utilizzo potrebbe essere dannoso, soprattutto per gli adolescenti. Per ovviare a questo problema, è opportuno conoscere i social e utilizzarli consapevolmente sapendo ciò che si vuole comunicare e come farlo. Questo, tuttavia, è un aspetto che spesso sfugge ai ragazzi che sono spinti a pubblicare ogni istante della propria vita, perfino la necessità del suicidio, agli altri followers.
Il social potrebbe essere inteso, in questo senso, come uno strumento attraverso il quale ricevere feedback; feedback che possono influenzare il processo di costruzione identitaria e di percezione di sé a tal punto da comportare l’emergere di un falso sé che renderebbe l’individuo ancor più fragile. 

Si tratta di un aspetto emerso in un interessante documentario prodotto da Netflix nel 2020 dal titolo “the social dilemma”. Nel programma è stato evidenziato come, a causa dei social network e dunque del loro impatto sul comportamento umano, le nuove generazioni, nate nell’era digitale, siano più vulnerabili e meno in grado di definirsi. Questo fatto, a livello clinico, potrebbe condurre allo sviluppo di disturbi anche profondi di ansia e depressione. Non a caso, il numero di suicidi messi in atto da adolescenti nell’ultimo periodo in America è addirittura triplicato. I ragazzi ad oggi farebbero molta fatica a prendere le distanze dal mondo social che crea inevitabilmente una dipendenza (Alao et al., 2006). Ci troviamo quindi di fronte ad una nuova era nella quale i ragazzi utilizzano canali di comunicazione come Instagram per rendere visibile anche l’atto estremo di togliersi la vita, con serie conseguenze sulla salute psichica di coloro che visualizzano il contenuto social.

Dunque, parlare di social significa iniziare un discorso molto complicato, che merita di certo la nostra attenzione. Inoltre, i motivi che portano alla pubblicazione di contenuti privati ed estremamente sensibili costituiscono un tema decisamente complesso su cui occorre sempre elaborare una riflessione che tenga soprattutto conto di quanto sottolineato finora. 

In ultima analisi, è opportuno considerare il momento storico nel quale ci troviamo attualmente: numerose ricerche hanno evidenziato un incremento del 10% di accessi al pronto soccorso per attacchi di panico, crisi psicotiche o gravi picchi depressivi nei più giovani, mentre l’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma ha visto un aumento dei ricoveri per tentativi di suicidio e autolesionismo nei ragazzi dai 12 ai 18 anni rispetto allo scorso anno. Secondo il presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi, David Lazzari, in un momento come questo gli studenti delle scuole superiori sono sempre più bisognosi di ricevere aiuto, sostegno e ascolto per superare il malessere dovuto all’isolamento e alla mancanza di socializzazione. Dunque, la possibilità di dare voce alle problematiche, anche legate alla pandemia in corso, potrebbe essere un aspetto funzionale al recupero di un maggior equilibrio e benessere mentale e alla diminuzione del rischio che gli adolescenti mettano in atto comportamenti distruttivi.

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

Un evento inaspettato ed imprevedibile può comportare una serie di difficoltà psicologiche che si accompagnano a manifestazioni sintomatologiche tipiche delle sindromi psicotraumatiche. Se, in aggiunta, il fatto ottiene una certa risonanza mediatica, perché, come nel caso descritto, vi è una circolazione di contenuti tramite i social, le conseguenze potrebbero essere ancora più impattanti: il rischio di emulazione del comportamento agito potrebbe essere elevato. E’ perciò importante che la persona colpita dall’evento possa avere la possibilità di verbalizzare i propri vissuti in modo tale da riconoscerli, attribuirvi un significato e rielaborarli. Per raggiungere questo obiettivo, gli interventi gruppali possono essere utili dal momento che consentono anche la condivisione degli aspetti emotivi e cognitivi con tutti i partecipanti; elemento funzionale al superamento dell’esperienza avversa sperimentata. Le tecniche di debriefing, leggermente più complesse e lunghe, e di defusing, più immediate e meno impegnative da un punto di vista psicologico, possono venire in aiuto quando si vuole strutturare un intervento breve rivolto a persone che condividono un’esperienza traumatica importante.

BIBLIOGRAFIA

Alao, A. O., Soderberg, M., Pohl, E. L., & Alao, A. L. (2006). Cybersuicide: review of the role of the internet on suicide. CyberPsychology & Behavior, 9(4), 489-493.

Bailly L. (1992) Les catastrophes et leurs consequences psycotraumatiques chez l’enfant. ED ESF 1996

Barrois C. (1992) Souvenirs de l’Enfer ed Enfer su Souvenir; atti de “l’International Symposium Stress, Psychiatry and War” WPA Paris 1992

Bearman, P. S., & Moody, J. (2004). Suicide and friendships among American adolescents. American journal of public health, 94(1), 89-95.

Caretti V, Capraro G., (2008), Trauma e psicopatologia, Astrolabio, Roma

Giannantonio M., 2009, (a cura di) Psicotraumatologia e psicologia dell’emergenza, Ecomind, Salerno

Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (quinta edizione) (2014). Milano: Raffaello Cortina editore.

Mueller, A. S., & Abrutyn, S. (2015). Suicidal disclosures among friends: using social network data to understand suicide contagion. Journal of health and social behavior, 56(1), 131-148.

FILMOGRAFIA

The social dilemma. Cast. Skyler Gisondo, Kara Hayward, Vincent Kartheiser. Netflix, 2020