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Quale approccio nel periodo post-immediato nelle sindromi psicotraumatiche?

Autore(i): Claudia Jasmin Marelli (*); Valeria Perrucci (*)

(*) psicologa. Centro Eos – Pavia

Il termine prevenzione tende immediatamente a far pensare a situazioni in cui risulta necessario agire prima che si verifichi un qualsiasi avvenimento che, per sua natura, potrebbe risultare spiacevole.

In questo ambito, ovvero quello della prevenzione secondaria, l’avvenimento “spiacevole” è invece l’elemento chiave da cui scaturisce il nostro progetto d’intervento psicosociale di prevenzione secondaria.
Quest’ultimo si pone nell’ambito socio-sanitario con finalità preventive rispetto allo sviluppo di sindromi psicotraumatiche, possibili conseguenze di incidenti stradali con morte improvvisa e inaspettata di familiari o persone molto care.
Lo scopo principale dell’intervento è ridurre l’incidenza di sindromi psicotraumatiche nei soggetti traumatizzati che vengono da noi presi in carico entro e non oltre 10gg dall’avvenimento traumatico.
Nella letteratura scientifica ,infatti, è emerso che in seguito a tale presa in carico vi è una riduzione dal 20 % al 2,5% dell’incidenza di tali sindromi.
L’intervento in questione, attualmente, viene svolto dall’équipe di psichiatri e psicologi volontari del “Centro Eos per le Vittime di Traumi e Catastrofi” di Pavia.

Introduzione:
Il termine prevenzione tende immediatamente a far pensare a situazioni in cui risulta necessario agire prima che si verifichi un qualsiasi avvenimento che, per sua natura, potrebbe risultare spiacevole.
In questo ambito, ovvero quello della prevenzione secondaria, l’avvenimento “spiacevole” è invece l’elemento chiave da cui scaturisce il nostro progetto d’intervento psicosociale di prevenzione secondaria.
Quest’ultimo si pone nell’ambito socio-sanitario con finalità preventive rispetto allo sviluppo di sindromi psicotraumatiche, possibili conseguenze di incidenti stradali con morte improvvisa e inaspettata di familiari o persone molto care.
Lo scopo principale dell’intervento è ridurre l’incidenza di sindromi psicotraumatiche nei soggetti traumatizzati che vengono da noi presi in carico entro e non oltre 10gg dall’avvenimento traumatico.
Nella letteratura scientifica ,infatti, è emerso che in seguito a tale presa in carico vi è una riduzione dal 20 % al 2,5% dell’incidenza di tali sindromi.
L’intervento in questione, attualmente, viene svolto dall’équipe di psichiatri e psicologi volontari del “Centro Eos per le Vittime di Traumi e Catastrofi” di Pavia.

Intervento psico-sociale di prevenzione secondaria
Nel contesto psicotraumatico è importante porre l’accento su alcune questioni ormai largamente condivise da quasi tutto il mondo psichiatrico e psicologico specializzato nella materia.
Innanzitutto, è interessante andare ad analizzare il concetto di prevenzione secondaria, a partire da una piccola analisi del termine, fino a giungere alla particolare accezione.
Con il termine prevenzione si intendono, infatti, tutte quelle azioni finalizzate ad impedire o ridurre il verificarsi di eventi non desiderati.
Gli interventi di prevenzione sono volti all’eliminazione o, nel caso ciò non sia concretamente attuabile, alla riduzione dei rischi che possono generare dei danni permanenti.
In questo ambito è quindi interessante valutare il particolare significato che questo termine assume.
Non si deve dimenticare infatti che la prevenzione, in questo caso, non va intesa come azione a priori rispetto ad un avvenimento ma come primo, e in alcuni casi unico, step nella presa in carico di soggetti che hanno subito un lutto improvviso e inaspettato.
Non si presuppone infatti che l’intervento eviti il verificarsi dell’evento, ma l’intento sarà quello di prendere in carico il maggior numero possibile di nuclei familiari emotivamente coinvolti dal trauma.
Attività preventive ben condotte, infatti, riducono le sequele post traumatiche dal 20% al 5%: in questo risiede l’importanza del termine prevenzione.

Per poter illustrare i principi base su cui si dovrebbero organizzare i programmi preventivi occorre farsi una idea di massima sulla dinamica temporale dell’incidente traumatico. Fermo restando che una schematizzazione è sempre un’approssimazione e non possiamo prescinderne se vogliamo organizzare delle attività dirette alla maggior parte delle vittime” (Marino R.)

Possiamo schematizzare questa dinamica come segue:

In questo schema sono riassunte tutte le fasi che seguono un evento traumatico, partendo da una situazione di antecedente “normalità”.
Nella fase d’impatto e per le sucessive 72h si verificano nel 100% delle vittime di evento traumatico una serie di sequele psicopatologiche che possiamo considerare come “reazioni normali a situazioni anormali”.
In questa sede è indispensabile un’accurata analisi dei bisogni ed una valutazione delle risorse del soggetto o del nucleo familiare.
Allo scadere delle 72h ha inizio la fase di assimilazione, ovvero quel periodo in cui le vittime tendono ad assimilare il trauma per naturale riassestamento sociale; questo fenomeno si verifica però nell’80% delle persone, restano quindi da considerare le conseguenze cui va incontro il restante 20%.
Durante la fase di assimilazione un intervento psico-sociale di prevenzione secondaria permette di ridurre in modo sostanziale la percentuale di soggetti che manifesteranno sindromi psicotraumatiche (da 20% a < 3,5%), sempre indirizzando l’intervento verso un’analisi dei bisogni e una valutazione delle modalità comunicative in atto.
La prevenzione secondaria risponde quindi ai bisogni psicosociali portati dalle vittime nei differenti stadi dell’elaborazione del processo di assimilazione dell’evento traumatico; uno dei suoi cardini risiede nel concetto di outreach, ovvero quel movimento fisico e psichico che si compie per andare incontro ai soggetti traumatizzati.
Nel caso in cui il lavoro di prevenzione non dovesse sortire gli effetti desiderati, la proposta di un lavoro terapeutico (psicoterapeutico, psichiatrico etc…), in seguito ai 6 mesi d’intervento domiciliare, potrebbe risultare l’unica via per un nuovo assestamento delle vittime.
La letteratura attuale sul trauma identifica infatti 3 tipologie di prevenzione:

  1. Prevenzione primaria
  2. Prevenzione secondaria
  3. Prevenzione terziaria

Con il termine prevenzione primaria si intende parlare del processo di preparazione, antecedente l’avvenimento catastrofico rivolto a coloro che, come pompieri, medici, protezione civile, polizia etc., hanno il compito di intervenire sul luogo dell’avvenimento in caso di incidente o di catastrofe.
Questo processo consiste nell’acquisizione di conoscenze teorico-pratiche dei principi di base della psicotraumatologia e degli interventi possibili.
Si ottiene tramite corsi di formazione, esercitazioni e preparazione di materiale da utilizzare nel momento dell’outhreach.

La prevenzione secondaria, invece, si attua immediatamente dopo il trauma ed è rivolta a tutte le persone coinvolte direttamente o indirettamente con un avvenimento traumatico.
Di estrema rilevanza risultano i sei punti focali dell’intervento che in seguito verranno meglio approfonditi:

Analisi dei bisogni ed elementi destrutturanti secondari;
Analisi dei modelli comunicativi intrafamiliari e loro disfunzione legata al trauma;
Osservazione partecipata e ascolto;
Normalizzazione della sofferenza;
Riconoscimento delle emozioni;
Ristrutturazione del Sè.

L’efficacia della prevenzione secondaria sembra essere dimostrata nel 95% dei casi.
Tuttavia è importante ricordare che, anche in assenza di misure preventive adeguate, nell’80% dei casi dei soggetti vittime di traumi avviene una naturale assimilazione del trauma.
Questo tipo di aiuto può avere una durata minima: alcuni studi indicano che nel 60% dei casi la riconoscenza dello stato di traumatizzato, il considerare seriamente i sentimenti provati dalle vittime, il donare informazioni esatte sugli avvenimenti sono elementi sufficienti per permettere una assimilazione del trauma psichico.
La prevenzione secondaria necessita comunque di un’immediatezza d’intervento per favorire la verbalizzazione dei soggetti (“abreazione precoce”); lo svolgimento di questo il più vicino possibile al luogo dell’avvenimento, o in un contesto familiare e accogliente per le vittime; il riconoscere le loro reazioni come normali ad una situazione anormale mantenendo un approccio molto semplice, eliminando ogni linguaggio tecnico cercando di favorire anche il contatto fisico.
Malgrado queste premesse, gli interventi devono essere comunque standardizzati e condotti in modo omogeneo dalle diverse équipes d’intervento.
Durante l’intervento attuato nella fase acuta, si deve porre molta attenzione agli aspetti relazionali che intercorrono tra familiari, al fine di prevenire la cronicizzazione di eventuali comunicazioni disfunzionali, precedentemente assenti.

Terziaria è, invece, la prevenzione detta anche curativa.
Tale intervento, infatti, è diretto a tutti coloro che, in presenza o assenza di prevenzione secondaria, passati almeno 6 mesi, presentano una cronicizzazione dei disturbi correlati all’avvenimento.
Quintyn (1996c) suggerisce di creare équipe multidisciplinari al fine di valutare quale specialista potrebbe risultare più adatto alle differenti esigenze del soggetto.

Cosa si intende per “sindrome post traumatica”
Il disturbo post-traumatico da stress (PTSD) è una patologia disabilitante, spesso ad andamento cronico e frequentemente non diagnosticata. Il PTSD è stato ufficialmente inserito nelle categorie diagnostiche del DSM III nel 1980, facendo riferimento soprattutto alle conseguenze psicologiche di soggetti esposti ad operazioni di guerra; attualmente, nel DSM IV sono stati inclusi tra i fattori stressanti potenzialmente patogeni tutti quegli eventi, inaspettati ed improvvisi, in grado di costituire una grave minaccia per il singolo o per la collettività. Sono inclusi: alluvioni, terremoti, omicidi attentati, incidenti stradali, abusi sessuali etc. Inoltre, per quanto riguarda il trauma che coinvolge una persona amata, il DSM IV include negli eventi stressanti tutti gli eventi che hanno costituito “..una seria minaccia o pericolo per i propri figli, coniuge ed altri parenti stretti o amici”.
Dagli studi scientifici effettuati in ambito nazionale ed internazionale risulta che tale disturbo è spesso sottostimato, anche perché frequentemente associato ad altre patologie psichiatriche: depressione, disturbi d’ansia, disturbo somatoformi e abuso di sostanze.

Obiettivi del progetto
Come già ricordato dalla letteratura scientifica, le vittime di un trauma hanno un rischio pari al 20% di sviluppare patologia psichiatrica ad un anno dall’evento, ma soprattutto evidenziano che un intervento di sostegno psicosociale effettuato precocemente riduce l’incidenza di successiva patologia psichiatrica a meno del 5%.
L’obiettivo generale del progetto del “Centro Eos per le vittime di traumi e catastrofi” è pertanto quello di creare un Servizio diretto ai soggetti potenzialmente a rischio di sviluppare sindromi psicotraumatiche, in quanto vittime di un evento che abbia messo a repentaglio la propria vita, o che abbiano assistito o siano venute a conoscenza di un evento di tale portata, che abbia coinvolto familiari o amici.
A tal proposito, si argomenternno dettagliatamente le modalità di attuazione del progetto facendo anche un breve riferimento agli strumenti psicometrici utilizzati al termine di quest’ultimo (in seguito a 6 mesi di intervento psicosociale di prevenzione secondaria).

Metodo utilizzato: lavoro d’equipe, normalizzazione della sofferenza, ristrutturazione del Sé
I soggetti colpiti da evento traumatico vengono sempre seguiti a domicilio da due operatori locali (psicologi, psichiatri, assistenti sociali) che devono lavorare sempre in coppia, al fine di gestire il proprio stress e meglio elaborare movimenti transferali e controtransferali.
La fase realizzativa del progetto prevede che i soggetti interessati vengano contattati ed incontrati entro e non oltre 10 giorni dall’evento. Il progetto si esplica in sei mesi e la cadenza degli interventi domiciliari avviene settimanalmente per i primi due mesi, poi ogni quindici giorni per il terzo e quarto mese, e infine mensilmente per gli ultimi due mesi restanti.
Nel caso in cui, nel corso o al termine dell’intervento, uno o più soggetti avessero sviluppato patologia psichiatrica, seguirà l’invio allo psichiatra di competenza territoriale.
Destinatari dell’intervento psicosociale sono le vittime dell’ evento traumatico, i familiari o gli amici. Come trauma, si individua un incidente mortale o un evento che abbia messo a grave rischio l’incolumità del soggetto coinvolto.
L’intervento si basa su quattro cardini fondamentali:

1. Analisi dei bisogni,elementi destrutturanti secondari e modalità comunicative
Il traumatismo psichico può essere considerato come l’effetto della destrutturazione passeggera del campo simbolico dovuta, quasi sempre, all’irruzione del reale all’interno dell’apparato psichico durante un avvenimento traumatico esterno al soggetto (Bailly 2006).
Questa destrutturazione del campo simbolico è legata alla brusca intrusione di ciò che si potrebbe definire “materiale sensoriale bruto”, che in quanto tale “resta irriducile al sapere” (Briole 1994).
Studi al riguardo conducono a pensare che il grosso insieme definito “materiale sensoriale bruto” possa essere suddiviso in elementi “destrutturanti primari” ed elementi “destrutturanti secondari” o “accessori” (Marino, Riva 1999).
I primi possono essere considerati come l’essenza dell’avvenimento traumatico, ovvero quegli elementi in grado di rompere la catena simbolica utilizzata dall’apparato psichico del soggetto (Bailly 2006).
Quelli secondari invece, possono rientrare all’interno di quell’insieme di situazioni che normalmente sarebbero facili da gestire ma che divengono difficili da affrontare a causa del loro stretto legame con l’avvenimento traumatico.
Un intervento di psico-sociale di prevenzione secondaria ben condotto ha lo scopo di individuare questi elementi e lavorare, in sinergia con i soggetti traumatizzati, al fine di riprendere, in maniera guidata prima e spontanea poi, tutti quei comportamenti che in seguito al trauma si sono estinti.
Queste azioni, infatti, grazie alle loro proprietà “imbrigliatrici”, possono contenere gli elementi destrutturanti primari, che altrimenti sarebbero completamente liberi di predisporre il soggetto allo sviluppo di una sindrome psicotraumatica.
Situazioni come riprendere il lavoro, andare dall’avvocato, ritornare a fare la spesa etc…, potrebbero quindi essere di enorme aiuto al soggetto e al nucleo familiare.
Al fine di poter effettuare una reale analisi dei bisogni, è comunque necessario incontrare la famiglia all’interno del loro contesto casalingo; è ormai riconosciuto infatti che la casa è il luogo più appropriato per questa tipologia di intervento, che fonda parte delle sue radici psicologiche anche nell’attenta valutazione delle modalità comunicative intrafamiliari.
La famiglia che improvvisamente e inaspettatamente perde uno dei suoi componenti, rischia di mettere in atto modalità comunicative disfunzionali che spesso hanno l’intento di esprimere un qualcosa che, da un lato per la sua strutturazione e dall’altro per l’inadeguatezza del contesto, rischia di essere frainteso e di scatenare quindi furiose liti.
Prevenire, in questo caso, significa pertanto evitare che queste dinamiche possano cristallizzarsi e di conseguenza incrinare in maniera molto profonda i legami familiari.

2. Osservazione partecipata e ascolto
Si procede quindi con un graduale e discreto inserimento all’interno del nucleo familiare. La scelta delle visite domiciliari è stata fatta perché la casa rappresenta – generalmente – il luogo più protetto, accogliente, in cui sentirsi liberi e maggiormente a proprio agio ed evita, inoltre, lo sforzo – psicologico – dello spostamento.
Gli operatori ricoprono un ruolo di supporto, punto di riferimento e contenimento. Entrano all’interno del nucleo familiare come estranei, elementi esterni non invischiati nelle preesistenti dinamiche familiari. Accolgono i vissuti con un ascolto partecipato ma “neutrale”, “obiettivo”, “disinteressato”. Accompagnano i soggetti nell’elaborazione di angosce, ricordi, ripetizioni, comportamenti di evitamento, sensi di colpa e fantasie persecutorie (“se non avessi fatto questo… “, “se fossi arrivato prima …”).

3. Normalizzazione della sofferenza
L’angoscia suscitata dal trauma dev’essere contenuta e modulata perché, se troppo intensa, porta all’attivarsi di meccanismi di difesa disfunzionali al soggetto (vd. iper fissazione di scissioni, proiezioni …).
È importante evitare un approccio medicalizzato in quanto tende a trasmettere un’immagine patologizzata di sé: così facendo, anziché contenere il grado già elevato di angoscia, si rischia di incrementarlo.
I soggetti devono quindi essere aiutati a percepire l’intensa sofferenza – e il senso di frammentazione indotto dal trauma – come normale. Di frequente, infatti, i traumatizzati riferiscono vissuti quali “paura di impazzire”, “non sentirsi più se stessi”, “non riconoscersi più”. È importante che arrivino a riconoscere queste come reazioni (affettive – emotive – comportamentali) “normali”, a situazioni altamente stressogene, “anormali”. La normalizzazione porta quindi ad un contenimento dell’angoscia.

4. Riconoscimento delle emozioni:
si aiutano i soggetti a riconoscere i meccanismi di difesa con i quali, a un tempo, esperiscono e si proteggono dal dolore, al fine di identificare, verbalizzare e condividere in modo adeguato le emozioni ad essi soggiacenti. Il fine è il favorire sia una presa di coscienza personale circa la propria modalità di elaborazione del trauma, sia la comprensione di quella degli altri membri del nucleo familiare. In tal modo, si favorisce la condivisione delle emozioni in gioco, prevenendo/risolvendo fratture e fraintendimenti, e riportando così i membri della famiglia a modalità comunicative funzionali.
In seguito ad un avvenimento traumatico, la famiglia tende infatti a funzionare come un singolo apparato psichico: i singoli membri assumono – più o meno inconsciamente – ruoli diversi, in base alle aspettative circa la modalità altrui di esperire il dolore. Può esserci, ad esempio, chi vuole farsi carico della sofferenza di tutta la famiglia; chi, di contro, assume il ruolo del più fragile, ricreando così un nuovo equilibrio familiare, seppur compensatorio e distorto. Così facendo, dunque, si pone il rischio di rotture nella comunicazione e nelle relazioni: ad es. nessuno parla dell’accaduto perchè tutti temono di apportare ulteriore sofferenza nell’altro. Si generano fraintendimenti e un loop di angoscia che, non riuscendo a scaricarsi né a venir – cognitivamente e affettivamente – elaborata, espone maggiormente al rischio di liti e fratture relazionali.
Per questo motivo, è importante lavorare, se possibile, con tutti i membri della famiglia, per poter scardinare ruoli disfunzionali retti da false credenze ed erronee interpretazioni. Il trauma infatti sconvolge gli equilibri interni alla famiglia. Ogni componente ha modalità differenti di vivere e affrontare il dolore, anche in funzione dei ruoli familiari, delle diverse personalità e dei corrispettivi stili dfensivi. Per evitare che si cronicizzino stili comunicativi disfunzionali e le conseguenze correlate è necessario aiutare la famiglia a comprendere le modalità di esperire il dolore di ognuno, aprendo il nucleo alla condivisione emotiva.

5. Ristrutturazione del Sè:
L’esperienza traumatica può essere vissuta in duplice modo: una frattura catastrofica dell’apparato psichico e dei processi di pensiero, con conseguente break-out nell’auto e allo-rappresentazione; un avvenimento inaspettato, più o meno drammatico, che sorprende e impone un processo di risignificazione di sé. In entrambi i casi, il soggetto interessato deve affrontare un lavoro di auto-ristrutturazione e auto-rappresentazione che parta da e includa il significato soggettivo del trauma.
Nel corso dei sei mesi di intervento e dello strutturarsi della relazione fra destinatari e operatori, è chiaramente visibile il modularsi e modificarsi del modo di pensare l’evento e di esperire la sofferenza. Dapprima bisognosi di sostegno continuo e ravvicinato, insicuri di fronte a un’angoscia sentita come devastante, nel tempo i soggetti divengono più autonomi, sia nel mentalizzare l’evento, sia nella capacità di arginare l’angoscia. I processi di pensiero si ristrutturano, in accordo con un esame di realtà più chiaro e definito. Vengono acquisiti un equilibrio emotivo e un senso di sé nuovi, differenti rispetto allo status pre-trauma. L’evento altamente stressogeno rappresenta infatti una “nuova nascita”, al seguito della quale gli utenti imparano, nel tempo, a ridefinirsi come soggetti autonomi, sulla scia dei mutati equilibri interni alla famiglia.
Gli operatori Ascoltano e osservano con occhio obiettivo, portando un punto di vista “neutrale” e volto all’analisi dei nuovi bisogni interfamiliari. La frammentazione del sè e della progettualità futura conseguente l’evento deve trasformarsi, in seguito all’intervento psicosociale, in una nuova ridefinizione di sè, come singoli e come nucleo.
Per arrivare a ciò, gli operatori ascoltano e restituiscono quanto comunicato, in modo emotivamente intelligibile. Favoriscono la mentalizzazione autonoma, l’interpretazione, la riflessione. Creano uno “spazio transizionale” sicuro e protetto, all’interno del quale – in presenza di un Altro imparziale e competente, poter aprirsi, sfogarsi, ripensare a sé, all’evento, elaborare una nuova progettualità futura, prossima e remota. Suggeriscono, laddove ve ne sia il bisogno, il pensare a nuove modalità comportamentali o al graduale ripristino di quelle vecchie (ad es. riprendere precedenti interessi).
Gli operatori, tuttavia, non si sostituiscono agli utenti nel risolvere direttamente le difficoltà riportate. Si limitano, in tal senso, a indurre a una riflessione e, in seguito a questa, all’azione. Diversamente, non si favorirebbe la ripresa della normale e quotidiana operazionalità, accollando oltretutto agli operatori responsabilità non loro, e un inadeguato carico di stress aggiuntivo.

CASE STUDY
Breve introduzione al caso e primo sopralluogo
Primavera 2007: il Centro Eos viene contattato per una domanda di intervento che non rientra all’interno dei criteri d’inclusione del progetto, ovvero viene richiesto un sostegno ad una famiglia che ha perso un figlio in seguito a suicidio.
L’intervento in oggetto, infatti, non includeva nei propri criteri famiglie di vittime di suicidio, bensì parenti di vittime di incidenti stradali.
Da un’approfondita analisi, emerge comunque che Il programma d’intervento non avrebbe dovuto subire importanti modifiche. Sussistendo la possibilità di poter effettuare un buon lavoro di sostegno, avviene il reclutamento di due psicologhe del Centro e viene dato avvio all’intervento.
L’introduzione all’evento traumatico viene effettuata da un’assistente sociale della provincia di Pavia che già in precedenza aveva usufruito dei nostri servizi. Sempre tramite l’operatrice, ci mettiamo in contatto con il nucleo familiare da prendere in carico.

Applicazione pratica
In compagnia dell’assistente sociale ci rechiamo presso l’abitazione della famiglia. Qui ci accolgono, in modo estremamente gentile, il padre, la madre e la sorella minore del ragazzo.
Una volta introdotte veniamo subito a conoscenza della dinamica del fatto. Ci vengono inoltre mostrate una serie di comunicazioni effettuate dal ragazzo antecedenti l’avvenimento.
La ricostruzione cognitiva dell’evento ha evidenziato che in questa fase per la famiglia il bisogno primario era arrivare ad una ristrutturazione degli avvenimenti antecedenti al suicidio, al fine di poter valutare in maniera oggettiva le responsabilità di terzi.
L’atteggiamento del padre è apparso in prima istanza molto aggressivo e richiedente. La madre pareva oscillare tra un atteggiamento di assenza/presenza passiva e la necessità di apparire tranquilla. La sorella sembrava incuriosita dalla nostra presenza ma comunque distaccata.
Il primo incontro è durato circa 3h, che sono risultate troppo pesanti a causa di una nostra iniziale difficoltà a gestire le richieste – inconsce – di contenimento e i vissuti transferali e controtransferali.
Per i successivi 2 mesi, ci siamo recate regolarmente presso la famiglia, con incontri a cadenza settimanale. Il percorso effettuato ha conosciuto differenti fasi di evoluzione/involuzione individuale/gruppale.
Da una prima analisi dei bisogni familiari, sembrava che il nucleo non avesse mutato nulla nelle dinamiche quotidiane rispetto ai momenti precedenti l’evento.
In un secondo momento, però, ci siamo rese conto che questa apparente vita immutata, in realtà aveva subito una serie di sottili variazioni interne, a nostro avviso percepibili solo con la continuità nel tempo e con la possibilità di varcare alcune piccole soglie lievemente intravedibili.
La comunicazione interna al nucleo familiare, altro elemento di fondamentale importanza, correva il rischio di arroccarsi su dinamiche e messaggi estremamente disfunzionali.
L’impressione che mancasse un linguaggio familiare condiviso e che qualcosa si fosse rotto o quantomeno interrotto, è emerso in maniera molto evidente col tempo.
A distanza di 3 mesi circa sembrava che coabitassero all’interno dello stesso contesto familiare due nuclei ben distinti difficilmente interagenti. Un “arcipelago” composto da due grandi “isole”:

  • La madre e la figlia, che col tempo hanno riacquistato un linguaggio comune, una certa intimità e confidenza;
  • Il padre, che, nonostante oscillasse tra momenti di ricerca di solitudine e altri di forte vicinanza, faceva enorme fatica a trovare punti di contatto con entrambe le figure femminili.

Con la costante supervisione del gruppo, abbiamo indicato a tutti come tentare di riacquistare degli spazi necessari alla comunicazione e alla nuova conoscenza.
Il trauma infatti può essere paragonato ad un parto, si ritorna al mondo come persone diverse, rinate; questo implica appunto che per poter tornare in contatto con i cari, sia necessaria una nuova fase di riscoperta dell’altro e di se stessi.
Con il susseguirsi degli incontri, il padre ha gradualmente frantumato la barrire difensiva eretta dal primo momento, apparendo sempre più vulnerabile e pronto a mettere in discussione le differenti posizioni precedenti.
La graduale elaborazione del lutto lo ha portato a percepire ed esperire sia la perdita in sé, sia la modalità dell’avvenimento, in modo sempre più funzionale ad un recupero della vita di tutti i giorni e al reinstaurarsi di un dialogo familiare.
La madre passava da momenti di reale assenza ad altri di iper socialità, molto distanti dal marito.
Con fatica la coppia ha tentato di sintonizzarsi e ritagliarsi momenti d’intimità, ormai sempre più rari, cercando anche delle modalità di ricordo del figlio che non fossero troppo distanti.
La figlia si è dimostrata via via sempre più difesa e riluttante ad intraprendere il percorso proposto. Adducendo giustificazioni sempre differenti, evitava gli incontri, difendendosi (psicologicamente) da ulteriori momenti di elaborazione emotiva. Sia l’equipe, sia i genitori, hanno più volte tentato di agganciarla, in modo graduale e delicato. Nel rispetto del volere e del vissuto emotivo della ragazza, si è poi rinunciato ad includerla negli incontri, mantenendone comunque un parziale e sottile coinvolgimento che le ricordasse, su eventuale sua richiesta, la nostra disponibilità.
In un ultimo momento è avvenuta la somministrazione dei test (Scala di Crocq, Hamilton Rate Scale for Anxiety and Depression, SCL-90, DIS-Q), che in sostanza hanno solo confermato le nostre osservazioni e supervisioni.
Attualmente la famiglia ha ripreso i suoi ritmi di vita, i membri sembrano essersi assestati su modalità comunicative più funzionali alla ricostruzione di nuovi legami e nessuna sindrome psicotraumatica sembra essere emersa.

Osservazioni osservatori e valutazioni della famiglia
Dalle osservazioni effettuate e dalla bibliografia al riguardo, viene confermato quanto la presenza domiciliare di soggetti esterni al nucleo familiare, in seguito ad eventi traumatici, possa apportare una serie di benefici.
Primo tra tutti, come riferito anche dai componenti della famiglia, il fatto di “…sentirsi presi per mano e accompagnati…” in un momento in cui nessun soggetto emotivamente coinvolto con la vittima sarebbe stato in grado di capire come gestire l’evento.
Da sottolineare la presenza in questa frase del concetto essere presi per mano e non fare le veci di uno dei membri o sovrapporsi ai membri della famiglia.
In questo risiede uno dei punti salienti dell’intervento ovvero aiutare la persona a riprendere le attività quotidiane interrotte in seguito all’evento.
Negli interventi psico-sociali di prevenzione secondaria, aiutare le famiglie comporta l’incentivare le persone alla ripresa spontanea di determinate attività interrotte dopo il trauma, anche quando – nei casi più estremi – significhi supportare fisicamente al loro ripristino.
In questo, a nostro avviso, risiede uno dei problemi principali degli psicologi e psichiatri (in che senso intervenire praticamente? Cosa intendono per accompagnare?) e in questo atteggiamento, più pratico, è presente una delle sfumature sociali dell’intervento.
Tutte le valutazioni psicologiche effettuate, infatti, a partire dall’analisi dei bisogni fino alle considerazioni legate alle modalità comunicative, sono volte all’attuazione di interventi mirati e ristabilizzanti un equilibrio fondamentale.
Il rischio può infatti risiedere nell’eventuale insorgenza di una sindrome psicotraumatica laddove gli elementi destrutturanti secondari legati all’evento traumatico non vengano gestiti correttamente.

Conclusioni e limiti del lavoro
In un territorio come quello pavese in cui incidenti stradali sono molto ricorrenti, un intervento con le famiglie delle vittime della strada risulterebbe essere una risorsa fondamentale sia per la popolazione, sia per i servizi di emergenza.
Malgrado tale premessa, tuttavia, la nostra più grande difficoltà risiede proprio nel primo contatto con le famiglie, che spesso non sono minimamente a conoscenza di questo servizio.
In sede di emergenza inoltre, la promozione di tale intervento non è apparsa efficace.
Ad oggi la staff del Centro Eos si sta muovendo su diversi fronti al fine di promuovere un concetto di intervento che non obblighi le persone ad una cura, ma che educhi alla prevenzione come mezzo d’azione primaria.
In un’ottica del genere i servizi potrebbero utilizzare questa modalità socio-terapeutica come una risorsa utile per ridurre il numero di disturbi correlati ad eventi traumatici.


Bibliografia

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