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Traumi nei bambini e nei soccorritori: una ricerca sulle strategie di coping

Autore(i): F. Sbattella ed E. Pini

Università Cattolica del Sacro Cuore – Milano

Negli ultimi cinquant’anni, la letteratura sull’impatto psicologico di un evento critico o di un disastro ha documentato la natura, l’intensità e le conseguenze degli effetti sulla popolazione colpita, sia a livello di reazioni individuali che di mutamenti collettivi (Gleser et al., 1981; Cardeña et al., 1994; Hobfoll & de Vries, 1995; Shalev, Yeruda & Mcfarlane, 2000). Solo in un secondo momento, si è considerato il fatto che chi interveniva a soccorrere queste persone, poteva essere esposto a stress e disagi fino al rischio di sviluppare lui stesso un disturbo post-traumatico stress (Durham, McCammon & Allison, 1985; Raphael, 1986; Wright, Ursano, Bartone & Ingraham, 1990).

Una ripetuta esposizione a situazioni critiche, può portare gli operatori dell’emergenza, soprattutto quelli coinvolti in prima linea, al rischio di sviluppare disturbi post-traumatici da stress, anche se i livelli di morbidità e resilienza non presentano, in letteratura, risultati univoci. Alcuni studi hanno riportato una globale capacità di recupero e mantenimento del benessere (Ersland & Weisæth, 1989), altri hanno mostrato come le reazioni degli emergency workers potevano essere confrontate con quelle di individui non esposti al trauma (Marmar et al., 1999), alcuni studi riscontrarono perfino benefici in seguito all’esperienza (Leffler & Dembert (1998). Accanto a queste ricerche se ne collocano altre in cui i soccorritori hanno manifestato sintomi di disagio più frequenti rispetto ad un gruppo di controllo (Ursano et al., 1995) o addirittura ai medesimi livelli delle vittime direttamente colpite (Johnsen, Eid, Lovstad & Michelsen, 1997). In una recente ricerca, North e collaboratori (2002) hanno studiato per la prima volta l’adattamento psicosociale, il funzionamento e i meccanismi di coping, confrontando gli operatori dell’emergenza (vigili del fuoco intervenuti nell’attentato di Oklahoma City) che presentavano o meno un disturbo post-traumatico da stress. In generale tra il personale senza PTSD si riscontrò una bassa percentuale di disturbi psichiatrici, uno scarso o nullo peggioramento del funzionamento globale, ma un alto livello di compromissione (83%) nel personale con PTSD. Questa diagnosi fu ulteriormente rafforzata da risultati che indicavano una riduzione della soddisfazione lavorativa ed effetti negativi nelle relazioni interpersonali, proprio in questi ultimi soggetti. Tra i meccanismi di coping emerse che la ricerca di supporto era uscita come strategia preferenziale accanto all’utilizzo di alcool (il 50% dei soggetti ne fa abitualmente uso e il 25% solo occasionalmente).

In questo senso un consistente filone di ricerche si è occupato di individuare e descrivere le possibili variabili predittrici del disturbo post-traumatico da stress. Lo studio di Epstein, Fullerton ed Ursano (1998), si proponeva di individuare degli efficaci predittori di disturbi post-traumatici all’interno di un campione di 355 militari operatori dell’emergenza. Oltre al ruolo determinante dell’esposizione traumatica, degli stressor successivi all’evento e della gravità delle lesioni, sono emersi altri due importanti elementi. Il primo è un basso livello d’istruzione, che correlava a sua volta con caratteristiche come l’adattabilità allo stress, l’intelligenza, il livello di esperienza, il grado di autorità e il senso di gestione ambientale. Il secondo è il senso di stordimento, chiamato a volte zombie-like feelings, particolarmente importante come indicatore di risposte dissociative al trauma. A questo proposito, Shalev e collaboratori (1996), hanno riscontrato che una dissociazione peri-traumatica è fortemente correlata con lo sviluppo di disturbi post-traumatici da stress dopo sei mesi ed è predittiva del 29,4% della varianza dell’intensità dei sintomi. Essi suggeriscono che i sintomi dissociativi sono evidenti operazioni difensive acquisite nel corso di esperienze passate e, quindi, utilizzabili come marker di una grande vulnerabilità. In più, essendo disadattivi, possono interferire con la normale processazione dell’esperienza traumatica. A risultati simili sono pervenuti anche gli studi che si sono occupati degli effetti dell’esposizione a morti traumatiche. Per esempio, Ursano e collaboratori (1995) hanno esaminato disturbi post-traumatici da stress, depressione, sintomi intrusivi e di evitamento acuti e a lungo termine negli operatori dell’emergenza in seguito all’esplosione di una torretta a bordo della nave della marina militare USS Iowa a largo di Porto Rico. I risultati hanno messo in evidenza che l’esposizione a tali situazioni traumatiche accresce la presenza di sintomi intrusivi e di evitamento, il rischio di sviluppare disturbi post-traumatici da stress e la persistenza di queste condizioni psichiche anche per parecchi mesi. Infatti, dopo un mese, i soccorritori che avevano partecipato direttamente alle operazioni di recupero e composizione dei cadaveri, mostravano più sintomi intrusivi e di evitamento, più ostilità e somatizzazioni rispetto agli altri colleghi. Tali sintomi decrescevano progressivamente dopo 13 mesi, anche se in alcuni casi tendevano a persistere più a lungo. Approssimativamente il 15% dei soggetti continuò a riportare sintomi clinici significativi un anno dopo. I sintomi PTSD furono riscontrati nell’11% dei soccorritori un mese dopo l’evento, nel 10% 4 mesi dopo e nel 2% 13 mesi dopo, mentre la frequenza della depressione non aumentò. Uno dei meccanismi osservati frequentemente nei soccorritori, fu l’identificazione con la vittima o con i familiari. È stato ipotizzato dagli autori che un tale coinvolgimento emotivo può essere considerato uno dei principali elementi responsabili del notevole aumento dei livelli di stress, soprattutto a confronto con morti traumatiche.

Il processo di identificazione scatta nell’operatore dell’emergenza soprattutto quando ad essere soccorso o coinvolto è un bambino. Dyregrov and Mitchell (1992) hanno indagato in modo specifico le strategie di coping che il personale che lavora nelle emergenze mette in atto quando nel disastro sono coinvolti dei bambini. Nell’ottobre 1988, in un’isolata vallata della Norvegia, un bus di scolari con trentaquattro persone a bordo, finisce in una scarpata: dodici bambini e tre adulti morirono e tutti gli altri furono seriamente feriti. I risultati ottenuti dall’elaborazione dei dati del Coping Mechanisms Questionnaire (CMQ, Dyregrov e Mitchell, 1992) hanno mostrato che gli operatori dell’emergenza per regolare le forti emozioni dalle quali sono investiti e per rendere il loro ruolo meno opprimente, usano in prevalenza metodi di distanziamento. Quando queste strategie non sono attivate il tracollo è annunciato e il primo segnale è l’identificazione con la vittima o peggio con la sua famiglia. I soccorritori vedono nel bambino ferito loro stessi bambini o, peggio, i propri figli; entrano quasi in un conflitto di ruolo tra l’essere surrogati paterni/materni o soccorritori. Gli autori hanno riscontrato che la strategia più usata (94%) consiste in attività che riducono la riflessione e che li astengono dal pensare alla dimensione emotiva dell’evento. Un altro meccanismo di coping molto utilizzato è il contatto con gli altri e il supporto sociale in generale (90%), segue la soppressione delle emozioni (76%), soprattutto quando si tratta di bambini poli-traumatizzati. Anche raccontare di aver vissuto l’evento come irreale (68%) e manifestare evitamento attivo di pensieri legati all’evento (68%), sono atteggiamenti molto comuni. Un’altra strategia molto utile per affrontare una situazione complessa e potenzialmente emotigena, è prepararsi mentalmente all’intervento (63%): discutere con i colleghi le manovre tecniche per trattare ogni caso al meglio e affidarsi dei ruoli per rendere ancor più efficiente l’equipe. Le altre strategie di coping che hanno ottenuto meno incidenza sono: commenti auto-rassicuranti, regolazione dell’esposizione allo stressor, astenersi dall’avere informazioni che possano interferire con la prestazione, concentrarsi solo sulle manovre, cercare di pensare ad altro e infine l’utilizzo di humor. Molto interessanti sono i dati emersi dalle interviste realizzate parallelamente alla somministrazione del questionario per indagare le risposte emotive del personale dopo l’evento. Le principali emozioni riportate sono forti sentimenti di impotenza; paura e ansia legate al senso di insicurezza e vulnerabilità per quei bambini feriti e in generale per i propri; insicurezza esistenziale legata all’ingiustizia di morti così premature; rabbia; dolore e pena; immagini intrusive, auto-rimprovero, vergogna e colpa; cambiamento di valori, soprattutto in seguito a riflessioni sulla vita e sull’amore per i propri cari.

Conferme a questi risultati sono arrivate da ricerche successive inerenti a disastri o incidenti di vaste proporzioni (ad esempio: Holaday et al., 1995; e North et al., 2002) e dalla letteratura specialistica sull’emergenza e urgenza quotidiana intra ed extra ospedaliera.

Il rischio di sviluppare un disturbo post-traumatico da stress, l’identificazione con la vittima, la vulnerabilità di fronte ad un bambino e la frequente esposizione ad eventi emotivamente preganti (anche se di diversa intensità e gravità) vengono ad essere, quindi, l’anello di congiunzione tra la letteratura psicologica sui disastri e la letteratura specialistica sull’emergenza sanitaria che si esplica nel quotidiano.
Il personale che opera nel soccorso extra-ospedaliero è esposto ad un’alta varietà di eventi stressanti quasi quotidianamente e deve quindi confrontarsi con le reazioni fisiche, psicologiche e relazionali a tale stress continuo (Giannantonio e Cusano, 2003). Per esempio è stato riscontrato che i soccorritori coinvolti in manovre di rianimazione cardiopolmonare con risultati infausti soffrono di reazioni post-traumatiche da stress. Riportano sentimenti ed immagini intrusive, pensieri vividi e incontrollabili dell’intervento e alta irritabilità (Genest, 1990). Clohessy ed Ehlers (1999) hanno dimostrato che una considerevole porzione di soccorritori (21%), che non erano stati esposti a maxi-emergenze e disastri, riportavano una sintomatologia post-traumatica. A questo proposito, un interessante studio Jonsson e Segesten (2003) ha analizzato 52 narrazioni di medici ed infermieri dell’emergenza che operano nell’area di Vastra Gotaland (Svezia), a cui era stato chiesto di descrivere un evento-intervento traumatico che avevano vissuto come soccorritori. Gli autori hanno identificato sei elementi comuni che emergevano dalle narrazioni. Sulla scena dell’incidente è emerso come particolarmente critico l’incontro con l’imprevisto e l’impossibilità di dare senso e significato a quanto accaduto. A questo si uniscono situazioni che suscitano forti sentimenti di empatia per le persone coinvolte e i familiari che spesso si traducono in movimenti di identificazione. L’identificazione può riguardare la vittima e, se ad essere soccorso è un bambino, l’identificazione con sé stesso quando era un bambino o come genitore. Infine le conseguenze dell’evento comprendono gli effetti che hanno sul presente (ad esempio ricordi e immagini associate) e la necessità di condivisione dell’accaduto con colleghi o familiari. Un elemento importante che è stato riscontrato nella maggior parte delle narrazioni è l’esclusiva centratura del focus sulla vittima con poca o nulla attenzione per il contesto circostante.

La vulnerabilità nei confronti di un bambino ferito o con una patologia acuta grave è stata riscontrata anche all’interno di studi più ampi sulla percezione di un evento come critico. O’Connor, e Jeavonson (2003) hanno condotto uno studio su 227 infermieri appartenenti a diversi reparti di un ospedale centrale di Melbourne (Australia), sul livello di stress associato a diversi eventi. Tra gli eventi considerati come critici sono emersi violenze ed abusi in particolar modo a carico di bambini, morte di un bambino, suicidio di colleghi o pazienti e il potenziale o reale contatto con fluidi corporei infetti.
Importanti evidenze sul coinvolgimento emotivo quando si presta soccorso o cure ad un bambino vengono anche dalla letteratura che si è occupata del personale impiegato nei reparti di terapia intensiva neonatale. Lo studio di Yam, Rossiter e Cheung (2001) è esemplificativo in questo senso e da ulteriori conferme delle forti implicazioni emotive presenti in questo lavoro e della necessità che hanno mostrato tutte le infermiere intervistate di proteggersi e distanziarsi emotivamente da neonati che attendono solo la morte.

Dalle ricerche fin qui presentate, che spaziano e sondano diversi ambiti di ciò che è emergenza, appare evidente come l’incontro con situazioni traumatiche metta a dura prova la tenuta emotiva dei soccorritori. L’incontro con bambini feriti appare ancora più impegnativo. Poiché il nostro tentativo è di studiare l’interazione tra emozioni dei soccorritori e la realtà infantile, è opportuno prendere in considerazione brevemente anche alcuni studi sui disagi post-traumatici nell’infanzia.

I principali eventi potenzialmente traumatici che colpiscono i bambini, soprattutto se piccoli, riguardano aggressioni di animali, incidenti, assistere all’uccisione di un genitore, abuso fisico, abuso sessuale, disastri naturali e interventi medici. Nella versione per l’infanzia e l’adolescenza del DSM-IV (Rapoport, Ismond, 2000), i criteri per il disturbo post-traumatico da stress sono stati resi più appropriati alle diverse età. Il sintomo più comune è la riesperienza dell’evento. L’evento traumatico riemerge secondo differenti modalità: incubi ripetuti, pensieri ricorrenti e intrusivi, stress e angoscia nel ricordare l’evento. Con i bambini piccoli si può osservare una modalità particolare di gioco (gioco post-traumatico) che riproduce concretamente alcuni aspetti della situazione traumatica (in modo diverso dal gioco rielaborativi), insieme a disegni e ad episodi dissociativi in cui il trauma viene riprodotto senza alcuna intenzionalità. I sintomi di evitamento o intorpidimento consistono in un appiattimento della sensibilità del bambino o arresto o distorsione del processo di sviluppo. Includono ritiro sociale, riduzione delle capacità di gioco, gamma limitata di affetti e perdita temporanea di competenze già acquisite. I bambini per esempio possono riportare un diminuito interesse per le loro usuali attività (leggere, giocare con gli amici, con i video game…) e apparire distanti e distaccati da famiglia e amici. L’aumento dell’attivazione (iperarousal) si esprime attraverso disturbi del sonno (terrori notturni con risvegli e pianto inconsolabile, difficoltà ad andare a letto e a mantenere il sonno), difficoltà di attenzione e di concentrazione, ipervigilanza e risposte di allarme esagerate (Ammaniti, 2001).

La letteratura riporta pochi studi esistenti sulle conseguenze psicologiche e comportamentali dei bambini esposti a incidenti stradali. I sintomi principali includono difficoltà di concentrazione; aumento del pianto; comportamento depresso, irritabile e regredito; lamentele somatiche; insonnia e incubi (Milgram, Toubiana, Klingman, Raviv and Goldstein, 1988). Jones e Peterson (1993) riportano il caso di una bambina di tre anni con sintomi post traumatici da stress (incubi, ansia, evitamento dei veicoli e gioco aggressivo) in seguito ad un incidente stradale sebbene non avesse riportato ferite. Altri casi simili a questo sono stati pubblicati da Casswell, (1997) e Stallard e Law (1993), analizzati però solo a livello descrittivo.
Alcuni tentativi verso una valutazione sistematica sono stati comunque realizzati. Canterbury e Yule (1997) seguirono un gruppo di 28 bambini dopo le dimissioni dal Pronto Soccorso in seguito a incidente stradale e trovarono che il 16% presentavano sintomi di PTSD. Tali studi però, come sottolinea Stallard (1999), soffrono di problemi metodologici che limitano la correttezza delle conclusioni: l’assenza di un gruppo di controllo appropriato, l’attenzione privilegiata ai sintomi post traumatici da stress e l’esclusione di altre possibili risposte patologiche.

La ricerca sul tema si sta progressivamente incrementando, soprattutto negli ultimi vent’anni, muovendosi verso la realizzazione di modelli che comprendano una complessità di variabili in gioco in risposta all’evento traumatico vissuto dal bambino e che traducano la teoria in strumenti psicometrici appropriati (Freedy and Donkervoet, 1995). Sono da segnalare i lavori di Scotti e collaboratori (1995, 2002) per realizzare una scala per la valutazione della gravità dell’evento (Scala di Identificazione delle Caratteristiche dell’Incidente; ACCIDENTS) e gli studi di Mullen James (1999) sugli effetti del trauma sulla processazione delle informazioni e selezione attentava.

Un altro settore di indagine molto interessante, che ha ripercussioni importanti rispetto alla nostra ricerca, è lo studio dei diversi aspetti dell’ambiente che possono contribuire ad attenuare o acutizzare lo stress. All’interno del sistema ambiente rientrano numerosi elementi, alcuni contingenti all’evento traumatico e strettamente legati ad esso (gravità del ferimento, intensità, livello di esposizione traumatica e di coinvolgimento di altre persone), altri concomitanti (ad esempio l’influenza del legame di attaccamento, altre relazioni significative, fasi critiche del ciclo di vita), altri ancora successivi (supporto sociale, altri eventi tragici…). L’atteggiamento dell’operatore dell’emergenza, la capacità di gestire a livello relazionale ed emotivo il soccorso, le modalità con cui si rapporta al bambino e ai familiari, le spiegazioni che fornisce, sono tutti elementi che influiscono sui vissuti del bambino, sull’interpretazione e sull’elaborazione dell’evento e quindi sullo sviluppo.

In conclusione, ciò che è già stato studiato sono le strategie di coping che gli operatori dell’emergenza utilizzano più frequentemente (equipe prevalentemente statunitensi, con larga partecipazione dei vigili del fuoco), il distanziamento emotivo come modalità privilegiata per far fronte allo stress dell’intervento e la particolare vulnerabilità e criticità del soccorso ad un bambino.

LA RICERCA

Obiettivi
Questo studio si propone di identificare e descrivere le abilità di coping che gli operatori dell’emergenza italiani utilizzano quotidianamente, dando voce e spazio alle loro esperienze di soccorso e focalizzando l’attenzione sugli interventi che coinvolgono i bambini. Ci siamo concentrati in particolar modo sui movimenti emotivi che il soccorso ad un bambino suscita e sul tipo di approccio a tale intervento. Si intende inoltre verificare l’influenza di alcune variabili, quali età, sesso, anni di servizio e ruolo, sullo stile di coping, sull’approccio all’intervento e sulle emozioni narrate. Più nel dettaglio, ci proponiamo di esaminare quanto “pesi”, nel soccorso ad un bambino, essere genitore e infine analizzare quali modalità sceglie l’operatore dell’emergenza per sciogliere le emozioni negative e la tensione legate all’intervento.

Metodo
Campione
Hanno partecipato alla ricerca 103 operatori dell’emergenza sanitaria 118 della provincia di Cremona appartenenti a: Centrale 118 di Cremona (15,5%), Ospedale Maggiore di Crema (29,1%), Comitati di Croce Rossa di Cremona (21,4%) e Crema (34%). Il range d’età dei partecipanti varia da 21 a 64 anni (m=38.6, ds=10,9), con 63,1% maschi e il 36,9% femmine. Gli anni di servizio vanno da un minimo di 5 mesi ad un massimo di 33 anni (m=10,4, ds=7,25). I ruoli rappresentati: 55,3% soccorritori di cui il 22,3% è anche autista, 31,1% infermieri e 13,6% medici di 118. I soccorritori senza figli sono 42 (di cui 18 maschi e 24 femmine), le madri 14 e i padri 47.

I soggetti individuati per la ricerca sono tutti gli operatori dell’emergenza presenti in turno durante una settimana di servizio estratta casualmente.

Strumenti
Questionario sulle Strategie di Coping dei Soccorritori. Il “Questionario sulle Strategie di Coping dei Soccorritori” è un adattamento alla realtà italiana del Coping Responses of Rescue Workers Inventory (CRRWI) ideato da McCammon et al. (1988) per misurare le strategie di coping utilizzate dagli operatori dell’emergenza. Nel nostro adattamento il questionario è composto da 41 item suddivisi in due blocchi per indagare le strategie di coping durante e dopo intervento. Il soggetto esprime la frequenza (0, mai; 1, raramente; 2, qualche volta; 3, spesso) con la quale compie le azioni elencate. Esempi di item sono: “Ricordo a me stesso che sto fornendo aiuto”, “Parlo agli altri dell’incidente”, “Cerco gli altri colleghi che stanno vivendo la mia stessa situazione”. Alcuni item, come quest’ultimo, appartengono logicamente ad entrambe le fasi considerate e sono stati quindi ripetuti in entrambi i blocchi.
Domande aperte. Le tre domande aperte andavano ad indagare con più precisione l’atteggiamento e i movimenti emotivi degli operatori dell’emergenza attraverso la narrazione di un intervento in cui ad essere soccorso era un bambino: “Cosa è accaduto? Cosa ha fatto lei?”, “Quali emozioni ha provato?” e “Quali valutazioni ha fatto di sé e della situazione?”. Per la codifica delle narrazioni è stata predisposta una griglia per la riduzione delle risposte in etichette descrittive. Le risposte sono state codificate da due giudici indipendenti per valutarne l’attendibilità; è stata calcolata la percentuale di accordo totale che ha dato un livello di affidabilità dello 0.94.

Dati strutturali. L’ultima parte dei questionari era dedicata ai dati strutturali: età, sesso, genitorialità, anni di servizio e ruolo ricoperto all’interno della squadra di soccorso. Un dato particolarmente interessante ai fini della ricerca erano, poi, alcune domande sull’atteggiamento e sulle modalità con cui il soggetto elabora e scioglie le emozioni e la tensione legata all’evento.
I questionari sono stati completati individualmente alla presenza dei ricercatori che hanno incontrato i soggetti in gruppi di 4/5 per volta. Come preventivato, non tutti i soggetti avevano avuto esperienze di soccorso con bambini, per questo, alcuni protocolli, nell’area delle domande aperte, sono stati lasciati in bianco.

Risultati
Analisi fattoriale ed affidabilità del “Questionario sulle Strategie di Coping dei Soccorritori”
Dagli item del questionario sono stati estratti tre fattori, emersi dall’analisi fattoriale per componenti principali (rotazione varimax); i fattori, gli item costitutivi, il loro peso (loading), la percentuale di varianza spiegata e l’affidabilità sono riportati nella tabella 1. Alcuni item, dato l’insufficiente livello di saturazione, sono stati esclusi, mentre altri (“Guardo alla situazione in modo realistico”, 1.3, e “Rifletto da solo su quanto è successo”, 2.17) nonostante avessero una saturazione piuttosto bassa, sono stati comunque inseriti nel fattore 2 per coerenza interna.
Ciascun fattore è stato associato ad uno stile che rappresentasse l’atteggiamento prevalente ed emergente dagli item costitutivi. Lo stile 1, “ottimista che si distrae”, descrive un soggetto globalmente ottimista, proiettato alle speranze per il futuro, che pensa ai lati positivi della vita e all’aiuto che fornisce con il suo servizio. Per sciogliere la tensione legata all’evento trova nuovi interessi, scrive, ascolta musica e rimane in contatto con la natura. Lo stile 2, “razionale e sociale”, ci presenta una persona con tratti realistici all’interno di un quadro globalmente relazionale ed orientato all’esterno e agli altri. Cerca sostegno emotivo, una guida e i colleghi che stanno vivendo la sua stessa situazione, oltre ad un aiuto ed un appoggio nella religione o nella filosofia. Infine lo stile 3, è stato definito “Centrato su di sé, legato alle emozioni e alla situazione” proprio per questa centratura sul soggetto, sul ruolo che ricopre, su ciò che ha fatto al meglio, su tutte le emozioni che l’hanno attraversato.

Tabella 1. Analisi delle componenti principali del “Questionario sulle Strategie di Coping dei Soccorritori” tra gli operatori dell’emergenza (N=103)


Stili di coping, genere e ruolo
Per valutare se esistono delle differenze di genere all’interno dei diversi stili di coping, sono stati svolti t-test per campioni indipendenti. Da queste analisi è emerso che maschi e femmine differiscono in modo significativo nei punteggi relativi allo stile di coping 2 e 3; le femmine mostrano punteggi relativi allo stile di coping “razionale e sociale” più alti rispetto ai maschi [t-test per campioni indipendenti, t(101)=-2.64, p<.05]. A loro volta i maschi sono più “centrati su di sé, legati alle emozioni e alla situazione” rispetto alle femmine [t-test per campioni indipendenti, t(81.26)=2.58, p<.05]. Non sono stati trovati risultati significativi per quanto riguarda lo stile 1, “ottimista che si distrae”.

Tabella 2. Risultati dei t-test per campioni indipendenti, medie e deviazioni standard delle variabili stile di coping per valutare se esistono differenze di genere.

Dall’anova univariata è emerso un risultato interessante per quanto riguarda lo stile di coping 3 (“centrato su di sè, legato alle emozioni e alla situazione”) e la variabile ruolo. Gli autisti mostrano punteggi relativi allo stile 3 più alti rispetto ai soccorritori.

Tabella 3. Risultati dell’anova, medie e deviazioni standard delle variabili stile di coping 3 per valutare se esistono differenze di ruolo.

Il soccorso ad un bambino: tipo di approccio ed emozioni
Le narrazioni degli operatori dell’emergenza circa il tipo di approccio al bambino nel soccorso forniscono un importante quadro delle situazioni che quasi quotidianamente si trovano ad affrontare.
“Bambino privo di coscienza, dispnea e febbre alta. Messo in atto le cure del caso ho cercato di comunicare con lui mantenendo un atteggiamento tranquillo e rassicurante (dopo la ripresa parziale di coscienza) cercando anche di coinvolgere la madre nelle fasi meno critiche…”[30/H/A]
“…abbiamo ricevuto la chiamata del 118 in codice rosso per una bambina di 6 mesi incosciente. Al nostro arrivo la bambina era in arresto respiratorio, è stato praticato il bls, è intervenuto l’elisoccorso ma purtroppo nulla da fare” [1/C/A]
“…un bambino con crisi epilettica. Ho cercato di tranquillizzarlo e di distrarlo dalla situazione” [14/C/N]
Dalle descrizioni dei soccorritori riguardo al tipo di approccio al bambino sono emersi risultati interessanti e significativi. Per quanto riguarda il genere, le donne descrivono il loro intervento soffermandosi in particolar modo sugli aspetti emotivi e di supporto; sono attente alle emozioni del bambino e della famiglia e il loro sguardo spazia anche sul contesto. Gli uomini forniscono descrizioni più tecniche ed operative; prevalgono termini specialistici e ipotesi diagnostiche anche se la componente emotiva non è del tutto assente ma spesso compare in seconda battuta (?2=8.57, gdl=2, p <.01).

Grafico 1. Genere dei soggetti e tipo di approccio al bambino 020406080100%maschifemminegenere dei soggettisolo tecnico solo emotivotecnico ed emotivo


Gli anni di servizio forniscono ulteriori risultati sul tipo di approccio. Gli operatori dell’emergenza “novizi” (fino a 5 anni di servizio) descrivono l’intervento soffermandosi maggiormente sulla componente emotiva dello stesso, gli “esperti” (oltre 11 anno di servizio) narrano il loro approccio al bambino utilizzando uno stile nettamente tecnico e operativo, mentre la fascia di mezzo (6-10 anni) ben concilia gli aspetti tecnici ed emotivi dell’intervento (?2=12.20, gdl=4, p <.01).

Grafico 2. Anni di servizio e tipo di approccio al bambino 020406080100%fino a 5 annitra 6 e 10 annioltre 11 annianni di serviziosolo tecnicosolo emotivotecnico ed emotivo.

Infine anche la variabile inerente ruolo che gli operatori dell’emergenza ricoprono nelle fasi del soccorso si è rivelato significativo in rapporto alla modalità di descrizione dell’intervento. Gli autisti soccorritori, descrivono il loro intervento sul bambino concentrandosi prevalentemente sull’aspetto tecnico, per i soccorritori l’approccio è più emotivo, mentre per gli infermieri e i medici è evidente la tendenza ad approcciare il bambino in modo tecnico e a volte in modo emotivo, ma mai esclusivamente emotivo (?2=13.18, gdl=6, p<.04).

Grafico 3. Ruolo e tipo di approccio al bambino 020406080100%autista socc.soccorritoreinfermieremedicoruolosolo tecnico solo emotivotecnico edemotivo

Quanto narrato circa le emozioni esperite durante il soccorso ad un bambino vanno ad aggiungere altri risultati interessanti a quelli ottenuti fin ora.
“A parte un primo momento di stordimento dovuto al numero dei feriti, non ho più praticamente provato emozioni fino al termine del soccorso” [13/H/A]
“Angoscia, paura, tristezza” [8/C/A]
“La prima emozione è stata di impotenza, poi quando l’ho avvolto nella coperta e trasportato nell’ambulanza mi è sembrato di ritornare indietro negli anni quando prendevo in braccio le mie figlie” [6/C/A]
“Impotenza, impossibilità di poter risolvere il problema, tristezza e tanta angoscia. È triste in un bambino così piccolo, non è giusto” [1/C/A]
“Mentre arrivavo cercavo di concentrarmi sulla guida ma ripassavo anche mentalmente le manovre pediatriche, avevo paura di sbagliare anche la minima cosa. Sul posto sono riuscito ad estraniare le emozioni e ragionare solo “tecnicamente”… anche se sapevo di avere fatto tutto il possibile e la meglio, ma cercavo di mantenere lontane le emozioni…” [1/C/N]
“Durante le manovre di soccorso e di stabilizzazione NESSUNA [emozione]…successivamente imponente sensazione di RIFIUTO dell’evento (vissuto come ingiusto nei confronti del bambino)” [7/H/N; è stato mantenuto lo stile grafico]
Questi estratti sono esemplificativi dei diversi movimenti emotivi che emergevano dalle narrazioni; per frequenza le emozioni narrate non si differenziano di molto (cfr. tabella 4), mentre è emerso per significatività e rilevanza l’evitamento emotivo in riferimento alle variabili genere e genitorialità.

Tabella 4. Frequenza percentuale delle emozioni narrate (N=65)

n.b. La domanda prevedeva la possibilità di descrivere più emozioni.
Gli operatori dell’emergenza maschi, nelle narrazioni, si sono dimostrati più evitanti delle donne (86,7% di risposte evitanti dei maschi contro il 13,3% delle femmine, cfr. grafico 4; ?2=5.20, gdl=1, p <.02). In molti casi riferivano di estraniarsi dal contesto, rimuovere le emozioni, lasciarle in secondo piano o tentare di soffocarle. In più i soccorritori madri e padri sono risultati più evitanti di quelli senza figli (cfr. grafico 5) (?2=4.235, gdl=1, p <.04).
Grafico 4 e 5 . L’evitamento emotivo all’interno del genere e della genitorialità evitamento emotivo86,7%13,3%maschifemmine evitamento emotivo20%80%senza figlicon figli

Grafico 4 e Grafico 5 – L’evitamento emotivo all’interno del genere e della genitorialità

Modalità di elaborare le emozioni legate all’evento
Particolarmente interessante per gli obiettivi della ricerca, è come gli operatori dell’emergenza elaborano le emozioni nei momenti successivi all’intervento.

Tabella 5. Frequenze percentuali delle diverse modalità considerate per scaricare le emozioni

MODALITÀ PER SCARICARE
LE EMOZIONI
Totale
100,0

Incrociando questi dati con le narrazioni degli operatori dell’emergenza abbiamo ottenuto dei risultati interssanti. Ci siamo concentrati sul numero di emozioni narrate, come feed-back della familiarità e della facilità del soggetto a parlarne e a considerarle, e l’abbiamo incrociato con le modalità che il soggetto usa per scaricare la tensione e le emozioni (cfr. grafico 6). I dati mostrano che queste due variabili si distribuiscono in modo non casuale (?2=17.87, gdl=9, p <.03).

Grafico 6. Percentuale di emozioni utilizzate per ciascuna modalità. 020406080100%NegazioneAiuto all’esternoBisogna organizzarequalcosaModalità di elaborare le emozioni1 emozione2 emozioni3 emozioni4 emozioni

Si potrebbe ipotizzare che, chi riconosce l’importanza di allentare la tensione e chi effettivamente lo fa, sfogandosi con qualcuno o in qualche attività (“aiuto all’esterno” e “bisogna organizzare qualcosa”), permette a tutte le sue emozioni di emergere e di essere esplicitate per iscritto. Chi invece nega questo aspetto, soffocando i movimenti emotivi che lo attraversano, si descrive con meno emozioni, ma probabilmente più mirate rispetto al suo stato di tensione.
Discussione
È ora necessaria una riflessione che, partendo da un commento sulla descrizione della realtà che i risultati hanno contribuito a delineare, approdi ai nodi cruciali della psicologia delle azioni di soccorso.
Tra le diverse strategie utilizzate dai soccorritori per affrontare la situazione emotigena, è emerso, in questa ricerca, come primario per frequenza e intensità, l’evitamento emotivo. Si può ipotizzare che questa strategia durante l’emergenza sia, in effetti, adattiva e funzionale alla situazione: consente di mantenere la concentrazione sul compito, di operare in modo efficiente (spesso contro il tempo) e di fare scelte determinanti per la sopravvivenza del paziente. Quanto detto assume importanza se confrontato con il risultato che vede gli operatori dell’emergenza genitori più emotivamente distanziati rispetto ai colleghi senza figli. L’evitamento emotivo può, però, essere controproducente ad emergenza superata, quando il soggetto deve dare sfogo a quanto ha soffocato per ristabilire l’equilibrio interno. Infatti, l’uso continuato di strategie di evitamento si rivela un fattore di rischio, in quanto non produce nuove informazioni sui problemi e compromette la disponibilità di alcune risorse, come ad esempio il sostegno sociale.
In linea con la letteratura (Gibbs, Drummond & Lachenmeyer, 1993; Jenkins, 1996), potrebbero essere utili per i soccorritori che hanno vissuto una situazione di soccorso drammatica, interventi di defusing e di debriefing. L’obiettivo principale di queste tecniche, come tutte le riunioni di gruppo nel contesto dell’emergenza, è quello di creare uno spazio condiviso d’espressione degli stati interni personali (in modo tale da legittimarli e normalizzarli) e un’occasione per rivedere e riconsiderare collettivamente gli elementi maggiormente traumatici a livello individuale. Ciò dovrebbe facilitare la decompressione emotiva, l’individuazione di reti di supporto sociale, la riduzione del senso di isolamento, la condivisone di informazioni utili a fronteggiare lo stress. In queste occasioni è anche possibile individuare difficoltà e sofferenze particolarmente intense, che possono poi evolvere in disturbi post-traumatici (Castelli e Sbattella, 2003).

La letteratura sugli effetti psicologici degli eventi traumatici ha da tempo sottolineato la necessità e i benefici di una rielaborazione cognitiva ed espressiva delle emozioni intense attraverso diverse tecniche e medium comunicativi (ad esempio Jenkins, 1996). Un’esigenza altrettanto pressante proviene dagli stessi operatori dell’emergenza che manifestano, a ricercatori e studiosi, i benefici del supporto sociale ricevuto da supervisori e colleghi e dello spazio narrativo ed emotivo concesso. Johsson e Segesten (2003) hanno evidenziato l’importanza che rivestiva il supporto sociale per gli operatori dell’emergenza nel ridurre il grado di stress, rendere “riconoscibile” e meglio identificabile l’evento, sentirsi legittimati e quindi più in grado di affrontarne gli effetti psicologici.

Anche l’utilizzo delle narrazioni, come strumento di indagine e al contempo di intervento, è uno strumento importante per la descrizione e la comprensione delle dinamiche che si esplicano in emergenza. Gli studi di Pennebacker (1990/1997) hanno dimostrato gli effetti benefici e il “potere” dell’espressione delle emozioni in caso di eventi traumatici e al contrario quanto l’inibizione dell’espressione delle emozioni possa portare problemi di salute, anche nel lungo periodo.

Il tema dell’efficacia delle strategie utilizzate dai soggetti in situazioni altamente stressanti è stato oggetto di grande attenzione da parte degli studiosi interessati al fenomeno della resilienza, intesa come capacità dei soggetti di resistere ad eventi stressogeni anche molto forti e di avere esiti evolutivi positivi (Oliverio Ferraris, 2003). Le ricerche hanno mostrato in generale che la resilienza è una qualità importante associata al coping efficace (Zani e Cicognani, 1999), anche se non si può affermare che esista in modo assoluto uno stile di coping che sia adattivo in tutte le situazioni.
Nella costruzione dello stile di coping personale intervengono diverse variabili, alcune innate (il sesso, l’età), altre apprese. Pochi studi hanno indagato in modo sistematico e chiaro le differenze di genere di fronte a situazioni di stress traumatico e tensione, ottenendo inoltre risultati spesso molto contrastanti. Freedman e collaboratori (2002) ritengono che le differenze di genere in risposta ad eventi traumatici siano legate al significato attribuito a quel particolare intervento o ad attribuzioni di genere specifiche. Noi aggiungiamo, che questo può dipendere anche da variabili complementari che si innestano sulle differenze di genere, come ad esempio la variabile maternità/paternità. Studi specifici su madri e padri operatori dell’emergenza, per quanto ci risulta, non sono mai stati effettuati, l’unico ambito indagato riguarda l’impatto potenzialmente negativo che lavorare in emergenza può produrre sulla famiglia e sul suo funzionamento (Monnier, Cameron, Hobfoll & Gribble, 2000; Shakespeare-Finch et al., 2002). Considerazioni sull’intersezione dei due domini, genitorialità ed emergenza, possono essere solo dedotte dalle ricerche che si sono occupate di come i genitori affrontano un dolore o una perdita.

Infine un ulteriore elemento di riflessione riguarda la formazione del personale che lavora in emergenza. La ricerca di Holaday e collaboratori (1995), già citata come riferimento in letteratura sugli stili di coping dei soccorritori di fronte ad un bambino ferito, evidenzia come i poliziotti e i vigili del fuoco, che avevano preso parte a training di formazione sui temi dell’aiuto agli altri e delle reazioni emotive, hanno riportato più comportamenti di auto-rinforzo e più ricordi interiorizzati. Invece i soggetti non precedentemente formati ad affrontare forti stress, sono risultati più segnati dalle emozioni negative con la tendenza a raccontare l’accaduto come se fosse tutt’ora presente.

Le reazioni emotive e gli stili di coping che mette in campo l’operatore dell’emergenza in un intervento non devono essere quindi considerate come semplici “strategie”: sono il prodotto di una storia cumulativa di interazioni e sono inserite in una organizzazione evolutiva. Per questo intervenire a questo livello significa andare ad operare più nel profondo; cambiare il coping richiede cambiare il sistema delle interazioni, modificare il contesto sociale e il modo individuale di vedere sé e il mondo. A su volta, promuovere un buon coping e reazioni emotive adattive può essere visto come una crescita dinamica che consente al soggetto di partecipare in modo più intenzionale ed efficace alla guida del suo sviluppo personale e professionale.


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