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Il trauma psichico e il ruolo della cultura: considerazioni teoriche e pratiche

Autore(i): Roberto Marino; psichiatra; Centro Eos Pavia; dirigente medico az osp provincia Pavia

Un intervento che segua un evento traumatico, che coinvolga una o centinaia di persone, non può prescindere da alcune considerazioni sul ruolo che il sistema socioculturale svolge nella gestione dell’avvenimento stesso. Queste considerazioni possono partire da almeno tre punti di osservazione differenti a seconda che la nostra attenzione si posi sugli effetti intrapsichici del trauma, sulla relazione fra soggetto e mondo, o sul sistema socioculturale nel quale l’evento si manifesta.


Alcune conseguenze individuali intrapsichiche

Quanto scritto da Ferenczi in un articolo apparso postumo ben evidenzia le modalità intrapsichiche di reazione ad un evento esterno catastrofico: “lo choc è equivalente all’annientamento del sentimento di se, della capacità di resistere, agire e pensare per difendere il proprio Io. (. . . ) L’immediatezza della commozione psichica causa un “gran dispiacere” che non può essere superato. Ma come potrebbe avvenire questo superamento?

  1. Tramite una difesa reale contro la causa del trauma, ossia una trasformazione del mondo circostante nel senso di un allontanamento della causa del dolore (reazione alloplastica)
  2. Tramite la produzione di rappresentazioni riguardanti la futura trasformazione della realtà in senso favorevole. (. . .) Queste rappresentazioni agiscono come antidoto, anestetico, contro il dispiacere (. . .)

(. . .)

Se questo tentativo di difesa fallisce, la conseguenza immediata è l’angoscia

Questa consiste in un sentimento di incapacità ad adattarsi ad una situazione che causa dispiacere ed alla quale si reagisce:

  1. Sottraendo il proprio Io all’irritazione (fuga)
  2. Eliminando l’irritazione (annientamento della forza esteriore)

Se nonostante tutto, la salvezza non arriva ed anche la speranza di salvezza sembra svanire, l’angoscia cresce ed esige una valvola di sfogo. Una tale possibilità è offerta dall’autodistruzione che, in quanto fattore derivante dall’angoscia, sarà preferita alla muta sofferenza. La cosa più facile da distruggere in noi è la coscienza, la coesione delle formazioni psichiche in un’entità: è così che nasce in noi il disorientamento psichico. (L’unità corporale non obbedisce allo stesso modo al principio di autodistruzione).

Il disorientamento aiuta:

  1. Immediatamente, come valvola, come sostituto dell’autodistruzione
  2. Tramite l’arresto della percezione del male estesa a tutto il campo di coscienza (…). Io non soffro più, al massimo una parte del mio corpo.
  3. Tramite una nuova forma di realizzazione dei desideri partendo da dei frammenti, al livello del principio del piacere.

L’angoscia traumatica può, in conseguenza di ciò, trasformarsi facilmente in paura della follia. In coloro che sono colpiti da follia di persecuzione –paranoia- , la tendenza a proteggersi da soli, a difendersi dai pericoli, deriva dall’angoscia percepita come segnale di pericolo. La follia di persecuzione, la follia di grandezza e i sentimenti di onnipotenza, di poter distruggere tutto, sono nella maggior parte dei casi inconsci.”

Dal punto di vista intrapsichico l’essere umano sottoposto ad un episodio traumatico tenta di intervenire sulla realtà o sulla propria rappresentazione di questa, all’interno di un rapporto di forza fra interno ed esterno che lo vede soccombere e lo costringe a “ritirarsi in se stesso” nel tentativo di operare un distacco che, se da un lato funziona come membrana protettrice dall’altro gli rende più difficile avere scambi dinamici funzionali con la realtà circostante. Queste considerazioni spiegano in parte la necessità di porre attenzione al corretto soddisfacimento di bisogni specifici.

In soddisfacimento di tali bisogni, modulando il rapporto fra individuo e società, esplica una azione preventiva di igiene mentale.

Alcune conseguenze sulla “relazione con il mondo”

Se spostiamo il nostro punto d’osservazione dall’intrapsichico al rapporto fra traumatizzato e cultura possiamo effettuare interessanti osservazioni.

Nel campo della mitologia Erodoto narra di un ateniese, Epizelos, che dopo una terribile battaglia, si aggira in preda a “visioni” –che nella clinica attuale sarebbero classificate come allucinazioni– dovute ad incontri con esseri soprannaturali e anime di defunti. Una attenta analisi delle dinamiche culturali potrebbe vedere nel rapporto con tali esseri un tentativo di riaffiliazione culturalmente determinato. L’interpretazione di queste visoni è dunque molteplice e dipende dal sistema di riferimento dell’osservatore. Possono essere interpretate come delle allucinazioni portando a una diagnosi di schizofrenia. In tal caso l’evento “battaglia” sarebbe unicamente accessorio e avrebbe avuto, al massimo, il ruolo di evento stressane capace di evidenziare una patologia insita nel soggetto.

Le visioni potrebbero anche essere interpretate come un chiara sindrome di reviviscenza all’interno di un p.t.s.d. In questo caso la battaglia sarebbe un fattore causale che ha agito su una debolezza strutturale del soggetto, che sia questa individuata nel sistema ippocampale e limbico, o in deficit psicodinamici di base.

Una interpretazione più antica o che fa parte di sistemi non cognitivamente dominanti richiamerebbe l’incontro con esseri soprannaturali, con le anime dei deceduti che, avendo fatto una morte violenta, si aggirano sul campo di battaglia.

Nei tre casi vi sarebbero “riti terapeutici” assolutamente differenti: neurolettici e comunità per psicotici nel primo caso; antidepressivi e tecniche psicologiche specifiche nel secondo; sedute spiritiche e rituali da effettuare nel terzo.

Il nostro approccio ci porta a pensare che l’evento traumatico, con il suo incontro immediato –nel senso di non mediato– con la morte, ristruttura l’esistenza inducendo una metamorfosi nell’individuo attraverso l’assunzione del frutto di una conoscenza proibita: la conoscenza della morte.

Un esempio di questa metamorfosi possiamo ritrovarlo ad esempio nel mito di Persefone che, nonostante la potente madre Demetra, a causa dell’ingestione di uno dei frutti prelevato nel regno dei morti, sette chicchi di melograno, non ha potuto abbandonare definitivamente l’Ade ed è costretta a trascorrervi gran parte del proprio tempo, e per l’esattezza tre mesi l’anno. Tre mesi l’anno, ossia una media di sei ore al giorno trascorse nel rivivere l’evento traumatizzante[1] che ci sommerge con visioni, odori, sensazioni . . .

L’evento traumatico produce delle perturbazioni nei sistemi di identificazione fisiologica e di affiliazione. Questi sono sistemi dinamici fra individuo e cultura durano tutta la vita e permettono al soggetto di sentirsi parte integrante di un gruppo e di avere la percezione di una identità coesa.

I rituali iniziatici sembrano aver compreso questi meccanismi. Nella clinica con soggetti traumatizzati ritroviamo tre costanti in comune con i processi di iniziazione : incontro con la morte; assunzione di una conoscenza proibita; metamorfosi. (Eliade ’74 Nathan ’94 ’98 Sironi ’89 ’92 ’98 Zajde ’98) In effetti i processi di iniziazione possono essere considerati come traumatismi psichici controllati da un iniziato e dalle culture che costui parteggia[2]. Parlo di culture per evidenziare che l’iniziato deve essere strutturato dalla cultura “dei vivi” ma anche da quella “dei morti” per poter permettere all “iniziando” di poter integrare (assimilare?) le nuove conoscenze rendendo la metamorfosi costruttiva e non distruttiva. (Nathan ’94 ’98).

Enea, dovendo discendere nel regno dei morti, si reca dalla Sibilla Cumana che lo sottopone ad un processo di iniziazione prima di accompagnarlo all’incontro con il padre Anchise, ormai morto. Solo mostrando il vello d’oro ai guardiani degli inferi, dimostrazione dell’avvenuta iniziazione da parte degli dei, le creature gli permetteranno di tornare fra i vivi serbando le nuove conoscenze[3].

Il mito di Enea sottolinea l’importanza della corretta esecuzione di tutto il rituale iniziatico. Se questo non viene correttamente compiuto l’incontro traumatico con la nozione di “morte” può farci perdere ciò che ci rende 2umani fra gli umani”; non riuscendo ad integrare le conoscenze che comunque hanno fatto irruzione in noi rischiamo di destrutturarci e perdere il senso della vita.

Di fronte all’incontro immediato dell’uomo con ciò che non è umano, la morte, la cultura può svolgere varie funzioni:

  • Tramite degli iniziati può affiliare la nuova persona a un gruppo di iniziati, creando un essere umano “nuovo”, a cavallo fra due mondi, in grado di assimilare quanto l’esperienza traumatica insegna;
  • Può offrire un sostegno alla persona pur non essendo in grado di mediare l’incontro: il soggetto deve essere “disposto” a “dimenticare” l’incontro; si tratta di un sostegno sociale tipico che si osserva con grande frequenza nelle nostre società.. Nella migliore delle ipotesi l’avvenimento traumatico sarà integrato nella vita del soggetto ma non assimilato;
  • L’evento è un evento non traumatico, nel senso che di per se non ha un “non senso” in grado di bloccare le logiche culturali. Ad esempio la morte di un animale domestico non è considerato un evento con un non senso che blocchi i sensi culturali come, ad esempio la morte di un figlio. In questo caso si ritiene che in effetti l’avvenimento non sia traumatico in sé, ma solo per quell’individuo che evidentemente aveva già in precedenza gravi disturbi psicopatologici.

Il ruolo della cultura

Come teorizzato da Ròheim possiamo pensare che non è la cultura che produce lo psichico né il contrario; ma entrambi sono espressione di una stessa realtà strutturale e il cambiamento in uno induce cambiamenti nell’altro (Nathan ’86).

Si può anche pensare alla cultura come ad una struttura che è al tempo costituita e in scambio dinamico con “n° psiche”[4]; le due realtà non coincidono e l’una non costituisce l’altra, tuttavia l’una senza l’altra non potrebbe esistere. Un avvenimento “non mediato culturalmente” in grado di cambiare l’essere umano, portandolo ai limiti della propria cultura o deculturalizzandolo, avrà un’influenza sulla cultura stessa cambiandola; e il cambiamento della cultura sarà tanto maggiore quanto più alto sarà il numero di “psiche” (individui) coinvolto. Nelle culture complesse[5] vi sono dei sottoinsiemi culturali, a cavallo fra il mondo visibile e l’invisibile, in grado di gestire questi cambiamenti in modo funzionale alla cultura.

Essendo le due strutture (psiche e cultura) in continuo scambio possiamo osservare anche un altro effetto: quanto più ampio è l’evento traumatico (quante più “psiche coinvolge”) tanto minore sarà la capacità della cultura di influire sulla singola psiche.

In effetti si può guardare ogni collettività come se disponesse di una forza di ordine sottile costituita in qualche modo dagli apporti di tutti i suoi membri presenti e passati. Tale forza è tanto più potente quanto più la collettività è anziana e composta da un elevato numero di membri.

Tale entità collettiva culturale costituisce una delle basi sulle quali agiscono i sistemi di affiliazione, sistemi sui quali occorre porre la massima attenzione sia in caso di traumatismi individuali che collettivi.

Linee teorico-pratiche di intervento

Alla luce di queste, considerazioni, si comprende perché quando interveniamo in una situazione in cui vi è un evento traumatico, una prima analisi dovrebbe essere dedicata alla traumatogenicità dell’evento. Questa può essere indagata anche analizzando:

  • La capacità individuale d’elaborare l’evento
  • La capacità culturale d’elaborazione dello stesso
  • L’estensione dell’avvenimento inelaborabile

Si dovrebbe considerare l’evento come traumatico quando risulti sia culturalmente che individualmente inelaborabile.

Da un punto di vista operativo, tenendo in considerazione quanto accennato sul ruolo svolto dalla cultura, può essere utile differenziare la psicotraumatologia in più branche:

  • La psicotraumatologia in emergenza
  • La psicotraumatologia delle catastrofi
  • La psicotraumatologia dei traumi psichici a basso sconvolgimento sociale
  • La psicotraumatologia individuale

Comprendere in quale caso ci si trova permette di attivare le metodologie più corrette.

Concentrandoci in fine sulla psicotraumatologia delle catastrofi occorre intanto chiarire l’item “emergenza”.

Questi deve essere considerato una variabile aggiuntiva; un vettore che cresce dalla psicotraumatologia individuale a quella delle catastrofi, e che non va confusa con la psichiatria d’urgenza con la quale ha tuttavia dei punti di contatto.

L’item emergenza va visto infatti non solo nel senso dell’urgenza, ossia della necessità di approntare delle risposte in breve tempo, ma secondo una definizione cognitivista che parte da un presupposto comune alla definizione di una delle funzioni della cultura (Nathan ‘86-‘93- ’94; Lombardi ’88): il successo di una specie, la sua sopravvivenza e crescita, è favorito da un ambiente altamente prevedibile in cui si conosce cosa accadrà e cosa fare per rispondere gestire e motivare l’accaduto.

Un evento costituisce una emergenza se il sistema socioculturale non è in grado di dominarlo cognitivamente; ossia se il sistema cognitivo dominante non è in grado di scindere l’evento in elementi primi costitutivi e di categorizzarlo in modo simile a quanto ipotizzato da Kant e ripreso in campo psicotraumatologico (Bailly ’92).

Un sistema in equilibrio è un sistema in cui gli eventi –domande poste al sistema– ricevono delle adeguate interpretazioni, , –risposte date dal sistema–. In emergenza si crea un gap fra domande poste e risposte ricevute che è indice della vulnerabilità di tutto il sistema sociale in quel dato momento[6].

Possiamo allora comprendere perché lo stato di emergenza è visto come una situazione di pericolo o di crisi nella quale le pubbliche autorità assumono poteri speciali. In queste situazioni si ha una perturbazione dell’equilibrio sociale con aumentata probabilità che il sistema socioculturale si rompa. Va da sé che un sistema socio culturale che subisce un input fortemente stressante, come in emergenza, reagisce attivando i sistemi cognitivi di cui dispone, nel tentativo di ritrovare uno stato di equilibrio. Se il sistema cognitivo dominante è in grado di gestire l’evento sarà possibile prevedere senza grosse difficoltà le procedure messe in atto dal sistema sociale. Se il sistema cognitivo dominante dovesse invece rivelarsi non adatto si assisterebbe al riattivarsi di archetipi culturali, di credenze culturali appartenenti a sistemi cognitivi precedenti.

Quando interveniamo in emergenza dobbiamo dedicare una attenzione particolare alla comprensione dei sistemi cognitivi vigenti e tarare su questi le nostre attività

Linee pratiche di intervento in caso di psicotraumatologia d’emergenza

Dal punto di vista operativo reputiamo che non sia possibile ipotizzare un modello operativo standard da applicare ad ogni catastrofe per vari motivi. Il primo riguarda le peculiarità delle catastrofi per cui difficilmente se ne trovano due uguali. Il secondo, più tipico italiano, riguarda le differenti metodologie operanti nei vari servizi di Igiene mentale per cui se non si mettono in atto sistemi di prevenzione primaria nazionali è difficile pensare ad una unificazione dei sistemi di prevenzione secondaria. E’ tuttavia possibile, partendo dalle considerazioni di cui sopra, riflettere su alcuni punti saldi.

  1. Il primo è proprio che gli interventi devono essere interventi psicosociali. Occorre agire sulla struttura sociale in modo che l’apparato psichico possa confrontarsi “correttamente” con quanto sta accadendo. Ciò vuol dire che la struttura sociale deve attivarsi riflettendo su cosa accade ad un soggetto che ha subito un trauma psichico (ricordiamo i meccanismi di rappresentazione della realtà e gli altri meccanismi di difesa attivi nei soggetti traumatizzati).
  2. Le eventuali nuove strutture che si attivano per far fronte all’emergenza non devono in alcun modo sostituirsi alle strutture sociali normalmente operanti anche se queste sono in difficoltà. Il sostituirsi a strutture sociali o sanitarie esistenti porta ad alcuni inconvenienti fra i quali ricordiamo: non si favorisce il corretto ripristino della struttura sociale che assolve anche a funzioni di stabilizzatore del livello cognitivo dominante; non si mette l’utenza nelle condizioni mentali di riprendere la operazionalità della propria esistenza.
  3. Porre particolare attenzione al ripristino e alla supervisione delle attività che permettono il normale funzionamento dei processi di identificazione fisiologica e affiliazione.
  4. Occorre che tutte le attività attivate siano supervisionate in quanto, soprattutto quelle con i minori, rischiano di fare emergere dei bisogni che attendono una legittima risposta che tuttavia rischia di essere disattesa . Infatti le attività permettono l’espressione da un lato dello stato di sofferenza mentale e dall’altro del bisogno di riattivare i processi di riaffiliazione culturale. Questi bisogni devono essere gestiti congiuntamene.
  5. Le attività di prevenzione devono essere dirette a tutta la popolazione colpita dall’evento traumatico. Se ci si occupa soltanto la sofferenza mentale del singolo (ricordiamo che siamo comunque in un’ottica di igiene mentale), partendo da un presupposto individualista tipico di un certo tipo di psicopatologia, si separa ancora di più il soggetto dalla propria appartenenza culturale curandone forse i sintomi ma svuotandolo di ciò che gli permette di essere una entità vivente all’interno dell’universo culturale. La sofferenza dei singoli spesso è un mezzo per esprimere un disagio complesso che riguarda l’intero nucleo familiare e /o sociale. Se vogliamo operare sulla salute mentale dobbiamo agire sulle relazioni familiari e/o sociali e non occuparci esclusivamente dei sintomi espressi da uno o pochi individui. Se si vuole cambiare il colore e la temperatura di un fuoco non bisogna agire sulla fiamma ma sui componenti che la alimentano.
  6. Operare tramite un outreach attivo, un andare incontro alle vittime. Le persone che hanno bisogni maggiori hanno spesso anche i maggiori problemi ad esprimerli.
  7. Ascoltare attentamente i bisogni espressi dalla popolazione ponendo molta attenzione a non anteporre i nostri bisogni tramite dei meccanismi di proiezione (anche gli operatori sono sottoposti ad elevati livelli di stress). L’ascolto corretto di tali bisogni può essere facilitato tenendo presente i modi di funzionare dell’Io adattati a fronteggiare i nuovi avvenimenti. Per facilitare l’identificazione dei bisogni e evitare le proiezioni dei propri si può pensare di affiancare ai responsabili alcuni psicotraumatologi come consulenti. Di massima importanza è la corretta gestione dello stress dei decision makers.

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[1] n° costituisce un numero imprecisato

[2] le cosiddette culture primitive

[3] Così postulato sembra che un sistema è in emergenza solo se le domande superano le capacità cognitive impegnate nelle risposte. In realtà anche alcune risposte creano emergenza se sono ridondanti rispetto alle domande (ad esempio la “falsa” informazione).

[4] ricordiamo sempre le analogie fra evento traumatico e assunzione di una conoscenza che è strettamente connessa con la morte e con il proibito

[5] Sarebbe forse più giusto parlare di sottoinsiemi di un’unica cultura

[6] I processi di iniziazione possono essere attivati anche dopo l’incidente (Eliade ‘91)