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Trauma e memoria. Forme del ricordo e dell’oblio nel modello traumatico

Autore(i): Silvia Barbieri*, Roberto Marino
* Specialista in Psichiatria; Centro Eos per le Vittime di Traumi e Catastrofi –Pavia- Azienda Ospedaliera della Provincia di Pavia

Parte delle riflessioni teorico-cliniche nel trattamento dei disturbi post traumatici si concentra su ciò che vari autori hanno identificato come “memoria traumatica” (Brenneis) .
La recente letteratura sui traumi psichici ha ipotizzato l’esistenza di una specifica forma di “memoria traumatica” (Brenneis), elaborando tale nozione alla luce di differenti prospettive interpretative.

Tali riflessioni traggono origine sia da studi sperimentali di tipo neurobiologico e neuropsicologico, sia dalla letteratura di ispirazione psicoanalitica.
Solo alcuni Autori, essenzialmente in riferimento al lavoro clinico con sopravvissuti a traumi psichici di massa, hanno indagato le specifiche vicissitudini della memoria in ottica sia patogenetica sia terapeutica.
Il presente lavoro, collocandosi nella prospettiva di una fenomenologia della memoria che abbia come filo conduttore il rapporto al tempo (Ricoeur), si propone una disamina dei processi rievocativi dell’esperienza traumatica nella duplice accezione patologica e terapeutica.
Il passo finale consisterà nell’ipotizzare, a fondamento degli effetti a breve e lungo termine sostenuti da traumi psichici, anche una specifica impossibilità ad accedere al ricordo. Di essi è possibile una trasposizione analogica sul piano collettivo, che qui rimarrà solo sullo sfondo.


Introduzione

Parte delle riflessioni teorico-cliniche nel trattamento dei disturbi post traumatici si concentra su ciò che vari autori hanno identificato come “memoria traumatica” (Brenneis).

Tali riflessioni traggono origine sia da studi sperimentali di tipo neurobiologico e neuropsicologico (si veda ed esempio McFarlane et al.; Layton et Krikorian), volti a indagare eventuali variazioni delle funzioni mnesiche conseguenti a traumi psichici (Wessel et al.; Golier et al.) e a definirne i correlati dal punto di vista morfofunzionale (Hull; Bremner et al.), sia dalla letteratura di ispirazione psicoanalitica.

Quest’ultima si è concentrata in principal modo sulla rievocazione dei traumi infantili nel processo terapeutico, sullo sfondo del dibattito inaugurato da Fonagy sull’effettivo ruolo svolto dal ripristino delle memorie infantili nel trattamento psicoanalitico. Solo alcuni Autori (tra cui ricordiamo Laub et Auerhahn; Laub et Lee; Houbballah), essenzialmente in riferimento al lavoro clinico con sopravvissuti a traumi psichici di massa, hanno indagato le specifiche vicissitudini della memoria in ottica sia patogenetica sia terapeutica.

Il presente lavoro, collocandosi nella prospettiva di una fenomenologia della memoria che abbia come filo conduttore il rapporto al tempo (Ricoeur), si propone una disamina dei processi rievocativi dell’esperienza traumatica nella duplice accezione patologica e terapeutica.

Il passo finale consisterà nell’ipotizzare, a fondamento degli effetti a breve e lungo termine sostenuti da traumi psichici, anche una specifica impossibilità ad accedere al ricordo. Di essi è possibile una trasposizione analogica sul piano collettivo, che qui rimarrà solo sullo sfondo.

Temporalità, memoria, trauma

In un recente saggio Ricoeur osserva come il rapporto alla dimensione temporale costituisca l’unico e ultimo possibile filo conduttore dell’insieme dei fenomeni mnemonici. Il riferimento classico è qui ad Aristotele, che per primo identificò nella referenza al tempo la nota distintiva del ricordo (“la memoria è di quanto è avvenuto”), operando una sovrapposizione tra analisi del tempo e analisi della memoria.

Ricordare (nella duplice accezione di mneme, memoria come ciò che appare al limite passivamente, pura affezione, e anamnesis, prodotto di una ricerca denominata richiamo o reminiscenza) implica la conquista di una distanza temporale a vari livelli di profondità, rappresentabili lungo un continuum su cui sono ordinabili le esperienze relative alla profondità temporale dei ricordi.

La connotazione temporale del ricordo non ha principalmente a che vedere con il tempo oggettivo, con la determinazione di un preciso intervallo temporale in cui situare ciò che viene ricordato. Secondo Piana il riferimento al passato non può consistere “nella datazione dell’evento, ma proprio nella sua assenza intesa come presenza trascorsa. Non si tratta di un puro e semplice non esserci, ma di non esserci più. Questo non più è la formula della connotazione temporale del ricordo” (Piana).

Le correlazioni tra temporalità psichica e vicissitudini della memoria individuale sono state particolarmente indagate della letteratura psicoanalitica, che ha elaborato specifici modelli interpretativi; tra questi, una rilevanza del tutto centrale è assunta dal riferimento alla “categoria del traumatico” (Petrella, 1994).

Tempo psichico, memoria e trauma vengono a costituire un fitto intreccio che nell’opera freudiana mostra elementi di crescente complessità e, a tratti, contraddittorietà.

Come è noto, negli Studi sull’Isteria (1893-5) Freud espone una concezione del traumatico di diretta derivazione charcotiana: il trauma, che in questa fase è assimilato ad episodi di seduzione infantile, è concepito come un’eccitazione eccessiva che non può essere scaricata per via motoria, né integrata per via associativa, né fatta oggetto di un lavoro della memoria. Il ricordo dell’esperienza traumatica viene così rimosso e consegnato all’oblio; l’abreazione terapeutica, implicherà un lavoro della memoria mediante un ristabilimento dei nessi associativi e una reintegrazione nell’Io di quanto era stato rimosso.

La nozione di Nachträglich, originariamente esposta nel Progetto di una Psicologia (1895), complica la direzione delle forze in gioco, prospettando una spiegazione del sintomo nevrotico che scardina dalle fondamenta il modello esplicativo classico di tipo medico-scientifico.

“…Viene rimossa la memoria di qualcosa che diventerà un trauma solo più tardi” (Freud, 1895): non ci troviamo di fronte ad una causa che rimane latente finché non ha occasione di manifestarsi, né propriamente ad un’azione differita, bensì ad una vera e propria causalità retroattiva del presente sul passato. L’introduzione della posteriorità viene così a segnare il momento in cui Freud abbandona il modello della causalità diretta e della temporalità lineare per accedere ad un’idea dialettica della causalità e soprattutto ad un modello a spirale del tempo, in cui passato e futuro interagiscono reciprocamente nella struttura del presente (Baranger et al.).

Il successivo interesse per le nevrosi di guerra, maturato nel corso del primo conflitto mondiale, porta all’elaborazione dei concetti di fissazione e di coazione a ripetere e, sullo sfondo, alla scoperta dell’istinto di morte. In Inibizione, sintomo, angoscia (1925) verrà compiutamente descritta la connessione tra trauma e istinto di morte: a tale ambito debbono venire ascritti i molteplici e polimorfi fenomeni di ripetizione che connotano strutturalmente ogni situazione traumatica.

La ripetizione istituisce una peculiare dimensione temporale: si realizza una circolarità che è per così dire avvitata su se stessa, chiusa ad evoluzioni creative e trasformative dell’esperienza. Ma il riferimento allo stato di inettitudine primaria (Hiflösigkeit), paradigmatico di ogni situazione traumatica con i suoi correlati di impotenza e paralisi di fronte all’irruzione di stimoli interni o esterni, ci introduce ad un’ulteriore specificazione temporale del traumatico.

Si tratta dell’a-temporalità del “trauma puro” nell’accezione suggerita dai Baranger: trauma da intendersi in termini puramente economici, con i suoi effetti di annichilimento dell’apparato psichico, autentica invasione di stimoli non padroneggiabili che rimangono allo stato bruto, estranei al soggetto e non inscrivibili in una narrazione. A questo livello il trauma non ha tempo, non ha memoria e non storia.

Ad un altro livello, superiore in termini di capacità di integrazione dell’Io, il trauma può essere inscritto in una storicizzazione che è però ripetitiva, congelata in una temporalità ciclica incapace di aprirsi ad orizzonti trasformativi. Si assiste così ad un tentativo, parzialmente riuscito, di ricostruzione e di inscrizione in una storia coerente e comprensibile che, almeno idealmente, rappresenta il punto di arrivo del processo terapeutico.

Una ricostruzione può dirsi ben riuscita se ad una temporalità ciclica, appiattita su un passato che non vuole prendere congedo dal presente si sostituisce una temporalità spiraliforme, potremmo dire hegeliana, in cui passato, presente e futuro interagiscono dialetticamente.

E’ipotizzabile così una sorta di continuum relativo alla capacità di storicizzazione del soggetto (Baranger et al.): ad un estremo traumi puri privi di storia; ad un altro estremo traumi inscritti in una narrazione; nel mezzo, tentativi più o meno riusciti di padroneggiare una situazione di annichilimento mediante il ricorso alla ripetizione.

In tale prospettiva, il riferimento all’esperienza del tempo si costituisce come principale criterio ordinatore nel tentativo di delineare i possibili modi e forme attraverso i quali i traumi vengono consegnati al ricordo.

Memorie traumatiche: aspetti psicopatologici e strutturali

Non una, ma molteplici forme di memoria traumatica sono rintracciabili in un’estesa serie di fenomeni che solo in parte possono essere ricondotti all’ambito della psicopatologia.

Ricordiamo come negli stili di personalità, nei temi esistenziali che strutturano l’identità (a livello sia conscio sia inconscio) e nella creazione artistica siano ravvisabili specifiche forme di memoria traumatica, che in tal modo trova una via di espressione e metaforizzazione.

Laub e Auerhahn hanno proposto una descrizione accurata delle diverse modalità di conoscenza e ricordo del trauma, ipotizzando una sorta di continuum su cui esse possano venire collocate. Il criterio ordinatore risiederebbe in un maggiore o minore senso di padronanza del ricordo stesso, a sua volta espressione di una maggiore o minore integrazione dell’esperienza da parte dell’Io.

La memoria traumatica varia così da forme di “non conoscenza”, in cui l’esperienza del trauma è disconnessa e inaccessibile al ricordo ma nondimeno permea le strategie di difesa e adattamento, a stati di dissociazione in cui il trauma viene rivissuto piuttosto che ricordato, a frammenti di ricordo decontestualizzati e apparentemente privi di senso, alla messa in atto di ripetizioni nelle relazioni oggettuali e nei temi di vita, per arrivare alla possibilità di racconto, testimonianza e metaforizzazione.

Osserviamo così come in alcune forme di memoria traumatica essa non sia connotata da un ricordare consapevole, ma implichi “derivati” più o meno organizzati che sono messi in atto. Laddove il ricordo può essere evocato consapevolmente e l’evento può quindi essere narrato, assistiamo a livelli diversi di padronanza del ricordo stesso, in rapporto al grado di presenza dell’Io osservante e di integrità delle sue funzioni sintetiche (Laub et Auerhahn), ovvero alla capacità di storicizzazione dell’evento (Baranger et al.).

Nella sua forma più brutale, indigesta e inassimilata il ricordo traumatico fa mostra di sé nei sintomi di reviviscenza.

Come è noto, si tratta di drammatiche esperienze di riattualizzazione del trauma che improvvisamente ed in maniera del tutto incontrollabile per il soggetto invadono il campo della coscienza, determinando intense reazioni emotive che riproducono gli antichi vissuti di terrore, sopresa, minaccia e sconforto.

Questa tipologia di ricordi traumatici presenta caratteristiche sensoriali estremamente vivide, sovente descritte dai pazienti come “più reali della realtà”. Riproducono infatti gli eventi a cui si riferiscono con estrema vivacità e chiarezza, tanto da renderle drammaticamente reali e presenti: immagine della realtà presente, “trionfo devastante della sensazione allo stato bruto”, riproduzione di un atto percettivo immediato e non di una rappresentazione riferita a qualcosa di trascorso.

Nella forma più drammatica ed estrema si tratta di vere e proprie visioni quasi allucinatorie della scena traumatica, che il soggetto rivive con intensa e penosa partecipazione emotiva; talvolta di pensieri ossessivi relativi al trauma, che emergono in modo acuto ed intenso occupando interamente il campo della coscienza del soggetto, il quale non riesce in alcun modo a sottrarvisi; assai spesso, infine, di sogni o incubi ripetitivi che riproducono variamente l’atmosfera traumatica.

L’esperienza del ricordare si connota qui per il suo carattere passivo, pura affezione non padroneggiabile: i contenuti mentali riferiti al trauma invadono il campo della coscienza imponendosi al soggetto, che passivamente li sperimenterà senza che l’Io possa avere alcuna presa su di essi.

La dimensione ossessiva, coatta dell’esperienza esprime l’impossibilità dell’apparato psichico di elaborare l’evento, autentico “corpo estraneo” al suo interno, e la conseguente fissazione ad esso.

Si assiste così all’impossibilità di istituire una distanza temporale tra l’esperienza traumatica antecedente e la sua ripetizione attuale. Il passato preme sul presente e non può in alcun modo prendere congedo da esso, proiettando nel contempo la sua ombra su un futuro avvertito come inaccessibile.

Scrive Piana: “..sull’appropriazione operata dal ricordo si fa dunque sentire ancora l’estraneità costitutiva del passato: da questo non posso più essere toccato (corsivo degli autori) come una volta. In fondo i ricordi non hanno peso. Nella rievocazione prendiamo la nostra distanza dal passato e possiamo liberarci da esso. Quando invece i ricordi hanno un peso, quando il passato urge sul presente e lo preme da ogni parte, allora forse non si tratta propriamente di ricordi, di processi espliciti del rievocare”.

La costituzione di una memoria dell’evento (da intendersi nel significato di rimemorazione o anamnesis) che consenta di accedere ad esso mediante la sua collocazione nel passato è qui primariamente impedita. Al vuoto di memoria, al ricordo impossibile subentra l’azione, che però non è davvero agita ma solo subita dal soggetto: la ripetizione testimonia così dell’impossibilità e contemporaneamente del tentativo di ricordare ciò che non può essere ricordato.

Nelle nozioni di memoria traumatica proposte nella letteratura psicoanalitica è possibile cogliere alcune concezioni teoriche del traumatismo; ne ricordiamo due definite da Balint economica o quantitativa e strutturale o qualitativa.

Nel primo caso il trauma viene inteso come elemento di rottura della barriera anti-stimolo, ampiamente dipendente da un fattore esterno; l’assetto difensivo sarà concepito in termini meccanici, come schermo contro gli stimoli, secondo un modello metaforico spaziale dell’apparato psichico. Nel secondo caso l’aspetto quantitativo diventa secondario e la genesi del trauma è messa in relazione ad una condizione di blocco e relativa insufficienza dell’apparato psichico; le funzioni difensive sono in questo caso descritte come una capacità, qualitativamente più o meno sviluppata, di creare legami rappresentativi creatori di storia (Kluzer).

Un’elaborazione coerente della nozione di memoria traumatica implica un’affiancamento di questa duplice teorizzazione, pena una sua sostanziale dissolvenza. Riteniamo vada in questa direzione uno scritto di Cohen, che propone di considerare una specifica forma di funzionamento mentale incentrata sulla coazione a ripetere e definita in termini di organizzazione della memoria, delle pulsioni e degli affetti, di cui la nevrosi traumatica costituirebbe un prototipo.

Dove uno stimolo sufficientemente forte è presente, il funzionamento secondo la coazione a ripetere che si instaura con funzione difensiva determina un’organizzazione della memoria alquanto primitiva, grezza, dove “registrazioni” povere e poco strutturate potranno divenire ricordi solo dopo prolungate ripetizioni ed elaborazioni terapeutiche.

Terapia è anamnesis

Nella prospettiva qui adottata la cura si declinerà essenzialmente come esercizio di rimemorazione o anamnesis.

Si introduce così una dimensione storico-narrativa (Petrella, 1993) che nell’atto terapeutico si declina nella capacità di fare racconto di sé in maniera coerente e comprensibile. E’ in gioco, in altre parole, il lavoro di ricostruzione di una continuità delle rappresentazioni di sé e del mondo, drammaticamente interrotto da un evento impossibile da significare e collocare nella coerenza della propria storia di vita.

E’evidentemente compito del lavoro psicoterapico stabilire dei “legami” intorno all’immagine traumatica, autentico “corpo estraneo” all’interno dell’apparato psichico, ristabilendo le connessioni tra evento, memoria e struttura della personalità (Laub et Auerhahn). Ciò appare con particolare evidenza nel lavoro clinico quando, ad esempio, la ripetizione della scena traumatica negli incubi notturni appare progressivamente infiltrata da elementi rappresentativi propri del soggetto (Lebigot).

Diviene così possibile metaforizzare e storicizzare l’evento, ove la dimensione storica e prima di tutto da intendersi come dimensione rimemorativa, connotata dalla possibilità di istituire una seppur parziale distanza dal passato, che è contestualmente riapertura al futuro.

Il lavoro della memoria tra dimensione individuale e collettiva

E’ stato ripetutamente osservato come una delle caratteristiche del trauma consista nel determinare l’esclusione dell’individuo dalla comunità degli uomini.

Per un istante interminabile non sono accessibili parole e rappresentazioni in grado di esprimere l’esperienza di annichilimento del traumatizzato, che sovente afferma di sentirsi completamente disumanizzato: “mi sono ridotto allo stato di bestia” è una delle comuni espressioni attraverso la quale il vissuto di diserzione dell’umano viene consegnato alle parole.

La considerazione del trauma come luogo di massima rottura dei legami di alleanza, affiliazione e appartenenza è enfatizzata dal pensiero etnopsichiatrico, nell’ambito di un approccio complementarista in cui la cultura è intesa come fondamento strutturale e strutturante dello psichismo individuale.

Come ha dimostrato Nathan (1991), nelle società tradizionali le ipotesi eziologiche del traumatico rimandano invariabilmente ad una duplice polarità di effrazione/estrazione: il soggetto incontra un universo radicalmente diverso che fa effrazione in esso, estraendo il nocciolo o principio vitale dalla membrana protettiva che contemporaneamente lo delimita e lo contiene ( tipica a questo proposito è la sottrazione o la perdita dell’anima, diffusa in molte culture africane ed asiatiche).

L’intervento terapeutico, nelle diverse varietà elaborate dalle culture, prevederà come via finale comune l’identificazione del gruppo di appartenenza ed un percorso di riaffiliazione mediata da un particolare dispositivo tecnico.

I riti di iniziazione rappresentano a questo proposito un interessante modello interpretativo.

I processi iniziatici mostrano numerosi aspetti in comune con la clinica dei soggetti traumatizzati, tra cui un drammatico incontro con la morte, l’assunzione di una conoscenza proibita e ai più preclusa, la metamorfosi personale che ne deriva. E’ stato così proposto di considerare la ritualità iniziatica come variante di traumatismi psichici controllati da un iniziato e dal sottoinsieme culturale di cui è portatore (Nathan, 1991; Zajde, 1993).

Il riferimento alle eziologie e al trattamento tradizionale di quanto oggi inscriviamo nella categoria del traumatico ci sembra utile a mettere in luce la complessa interfaccia tra i livelli individuale e collettivo di un difficile lavoro di rimemorazione.

Scrive Halwbachs nella sua classica opera sulla memoria collettiva: “…altri uomini hanno in comune con me questi ricordi. Di più: mi aiutano a ricordarli. Per meglio ricordare, mi rivolgo verso di loro, adotto momentaneamente il loro punto di vista, rientro nel loro gruppo, del quale continuo a far parte, perché ne subisco l’influsso e perché ritrovo in me idee e modi di pensare a cui da solo non sarei arrivato, e tramite i quali rimango in contatto con loro”.

La categoria del traumatico si connota essa stessa per un’evidente bipolarità, tra individuale e collettivo, che si compendia ad esempio nei rituali del lutto attorno a cui un gruppo si raccoglie.

Il ruolo della cultura nel mediare l’incontro dell’uomo con la morte, con ciò che travalica l’umano può assumere diverse declinazioni: dall’affiliazione a un gruppo iniziatico, in cui l’esperienza traumatica è patrimonio circolante e condiviso, a un generico sostegno anche in assenza di una vera capacità di mediazione, ad un disconoscimento di per sé potenzialmente traumatogeno.

Laddove una riaffiliazione è possibile e il soggetto può essere reintegrato in un sottoinsieme culturale, variamente connotato, accadono fenomeni del più grande interesse.

Alla ricostruzione di una memoria condivisa dell’evento, sancita spesso a livello rituale e istituzionale, si accompagna contestualmente l’assunzione di una nuova identità che potremmo definire “iniziatica” da parte del soggetto.

Mediante il ricorso a numerose figure della mitologia e della fiaba Crocq ha mostrato come dall’ “inferno”, dimensione sovente evocata dai traumatizzati come l’unica in grado di comunicare un vissuto inesprimibile, ritorni un essere umano nuovo, in bilico tra due mondi, portatore di un sapere inattingibile ai non iniziati al confronto con la morte e l’annientamento.

I temi che entrano qui in risonanza sono numerosi e del massimo interesse. Ci limitiamo a sottolinearne alcuni aspetti.

Secondo Halwbachs Cciò che il gruppo iniziatico può offrire al soggetto, in un gioco complesso di reciproche identificazioni, è una matrice ricostruttiva del passato e della memoria, un possibile contenitore, un “quadro” (Halwbachs) inedito e fuori dall’ordinario in cui sia possibile la collocazione dei ricordi in un difficile lavoro rimemorativo ad un tempo individuale e gruppale.

L’estensione dei gruppi iniziatici, il riconoscimento ad essi tributato (ad esempio, dal punto di vista legislativo o giuridico), i rapporti intrattenuti con altri sottoinsiemi sociali e con la cultura dominante sono a loro volta elementi non privi di importanza sul decorso di una possibile memoria di appartenenza.

La riaffiliazione facilita e determina il lavoro di rimemorazione offrendo possibili mezzi ricostruttivi che presentano sempre una natura interattiva, di mediazione e scambio tra individuo e gruppo di appartenenza.

Anche qui, approdo della memoria ricostruita è un oblio possibile.

Come ha suggerito Augè, il rituale iniziatico in molte società africane tradizionali assurge a vera e propria “forma dell’oblio”, in quanto l’iniziazione di per sé inaugura una nuova nascita, un ricominciamento in cui il passato viene dimenticato in una ritualità augurale che apre la strada al futuro.

L’affiliazione iniziatica, luogo in cui un nuovo inizio sancisce la deposizione del passato, implica sempre una metamorfosi costitutiva dell’identità.

E’ quasi scontato evocare qui una certa tradizione filosofica sulle profonde connessioni tra memoria ed identità.

La disgregazione traumatica della personalità, testimoniata clinicamente dalle manifestazioni di una regressione narcisistica più o meno profonda, può anche essere intesa come frattura di quella continuità temporale che, come sosteneva Locke, costituisce il fondamento costitutivo della nostra identità (“…di quel tanto che questa consapevolezza può venir portata al passato..fin là giunge l’identità di quella persona; è lo stesso io, ora, che era allora¸ e quell’azione fu compiuta dal medesimo io che se la rappresenta nella riflessione”).

Qui l’esperienza traumatica rivela la propria duplice natura (Kluzer): da una parte, situazione di frattura catastrofica dell’apparato psichico e dei processi che assicurano la continuità della rappresentazione di sé e del mondo esterno (e dunque dell’identità che su tale continuità si regge); dall’altra, a un evento nuovo, sorprendente per il soggetto a cui viene imposto un lavoro di risignificazione e ricostruzione personale.

Dalla dimensione disgregativa a quella ricostruttiva la mediazione è operata da sottoinsiemi sociali e dalla cultura in genere.

La cultura stessa, di fronte a traumatismi estesi che coinvolgono collettività più o meno ampie, è chiamata ad una metamorfosi che, come è stato sottolineato da Ricoeur, implica un lavoro di rimemorazione non dissimile da quello che impegna l’individuo.

“Il passato che non passa” (Rousso, Rusconi), espressione in cui riechieggia il paradigma psicoanalitico della coazione a ripetere, serve così a rappresentare in via analogica fenomeni collettivi di rimozione e ripetizione che testimoniano contemporaneamente della ricerca e dell’impossibilità di una memoria condivisa e di una metamorfosi identitaria.

Conclusione

Il modello traumatico si configura nella riflessione psicopatologica come una delle principali coordinate attraverso cui pensare i fenomeni osservati, assumendo a tratti una valenza assai estesa e mal definita, da principio organizzatore dello sviluppo psichico a mitico sfondo interpretativo dell’esperienza umana (Petrella, 1994).

Al di là delle possibili declinazioni, variamente implicate con gli sviluppo del pensiero psicoanalitico, riteniamo che il ricorso alla categoria del traumatico consenta di cogliere alcune vicissitudini della memoria individuale in rapporto alle fisiologiche discontinuità evolutive (che pure possono comportare esiti catastrofici) o a fattori di rottura francamente patologici.

Il traumatico può allora essere colto nella sua duplice valenza: da una parte, elemento trasformativo ed evolutivo che impone un lavoro di ritrascrizione del proprio patrimonio mnesico in funzione dell’orizzonte attuale; dall’altro, elemento di rottura della propria continuità autorappresentativa, “corpo estraneo” inaccessibile ad un esercizio di rievocazione e ricostruzione.


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