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Da vittima a carnefice: la complessità del fenomeno della violenza

Autore: Dr.ssa Claudia Jasmin Marelli – psicologa e psicoterapeuta Centro Eos
Autore: Dr.ssa Vera gatti -psicologa specialista nel ciclo di vita Centro Eos

PREMESSA

Dare una definizione del concetto di violenza è una impresa difficile. L’antropologa francese Francoise Héritier dice: “Chiameremo violenza ogni fenomeno di natura fisica o psichica che porti con sé il terrore, la fuga, la disgrazia, la sofferenza o la morte di un essere umano o ancora qualunque atto intrusivo che ha come effetto volontario o involontario l’esproprio dell’altro il danno o la distruzione di oggetti inanimati.” Culturalmente nei secoli, la violenza, intesa in modo fisico, ha riguardato principalmente le donne. Le statistiche confermano, infatti, che sono le donne ad essere maggiormente esposte ad episodi di violenza e maltrattamenti.

La Dichiarazione del 1993 delle Nazioni Unite enuncia come violenza sulle donne: “Ogni atto di violenza in base al sesso che produca o possa produrre danni o sofferenze fisiche, sessuali, psicologiche, coercizione o privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica che privata” Secondo una ricerca del dipartimento delle pari opportunità e dell’istituto nazionale di statistica (ISTAT), relativa al quinquennio 2009/ 2014, il 31,5% delle donne italiane comprese tra i 16 e i 70 anni ha subito violenza fisica o sessuale almeno una volta nel corso della vita; si tratta quindi di circa sei milioni e 788 mila persone, in pratica una donna su tre. La violenza però non ha sesso.

Non esistono infatti solo uomini violenti, bensì vi sono anche donne violente (Hirigoyen 2005). Molti sono gli studi sulle donne che subiscono violenza, ma si racconta molto poco degli uomini vittime di dinamiche violente, soprattutto per la difficoltà ad ammetterlo e per la vergogna sociale che ne può derivare. La violenza comunque ci circonda sotto varie forme: c’è la violenza “cattiva” quella evidente che lascia segni, che rompe, che uccide, immediatamente riconoscibile e per questo facilmente condannabile.

Poi c’è la violenza “buona” quella più subdola, quella travestita da “io solo sono in grado di aiutarti” quella manipolatrice che tende a svalutare , che rende insicuri e fa perdere di vista il senso di realtà. Paura dell’abbandono, desiderio di approvazione, idealizzazione del partner sono le vie d’accesso per un insano rapporto a due. Da una parte c’è qualcuno che ha un compulsivo bisogno di avere ragione, dall’altra c’è chi desidera essere fusa nell’altro per ottenere approvazione e allontanare lo spettro dell’abbandono e della solitudine.

Ad ogni passo dell’uno, corrisponde un passo complementare dell’altro. Si riconoscono in queste dinamiche in cui dominano il bisogno di rassicurazione e contenimento, nonché una scarsa autostima. Di per sé comunque la natura ci sottopone alla violenza quotidianamente, tanto da renderci quasi anestetizzati verso alcune delle sue forme. Ma c’è una violenza che sempre ci disarma e crea orrore: quella di una madre che uccide il proprio figlio.

Queste moderne Medea ci costringono ad aprire gli occhi su una società malata e sempre meno in grado di proteggere i più deboli. E per più deboli non s’intendono solo le vittime, ma anche coloro che commettono questi crimini tanto efferati da far pensare che a loro volta siano state oggetto di dinamiche violente.

“Tante volte ho pensato che noi donne abbiamo imparato la dipendenza dalle nostre madri, non perché ce l’abbiano insegnata come una cosa normale, non solo per questo, ma soprattutto perché il nostro rapporto con loro è così viscerale, così “identificato” – non so come altro dire – come se ci fosse un cordone ombelicale invisibile…e forse è per questo che la dipendenza mi sembra nell’ordine naturale delle cose, perché mi sembra inevitabile trasferire sulla persona amata la stessa struttura relazionale che ho vissuto con il primo amore della mia vita.

Come qualcosa che viene da sé”. (Marina Valcarenghi 2009) Il mito di Medea La tragedia di Euripide narra la storia di Medea, donna barbara che per amore di Giasone, abbandona la patria e il padre, dopo aver ucciso il fratello, per aiutare l’amato a conquistare il vello d’oro simbolo di potere e ricchezza. I due si uniscono in matrimonio e si trasferiscono a Corinto, dove nascono i due figli.

La vicenda vera e propria si apre sulla disperazione di Medea che si vede ripudiata dal marito, il quale decide di unirsi in matrimonio con la figlia del re di Corinto, più giovane e che sicuramente gli darà maggior potere. Medea disperata decide di vendicarsi uccidendo prima la promessa sposa e il re, per poi al colmo della follia, uccidere per vendetta ciò che ha di più caro cioè i suoi figli. Medea: “ o figliuoli Maledetti di madre odiosa Deh, possiate morire col padre Medea rappresenta la donna avvilita, frustrata nella sua sessualità, che si sente profondamente sola ed ha paura dell’isolamento. Lei che ha dato il massimo come donna rinunciando a ogni cosa per il suo uomo e riconoscendosi solo attraverso tutto quell’amore.

Tanto più si investe in una relazione, quanto più si rischia di rimanerne annientati. Avere terra bruciata intorno fa sperimentare una grande sensazione di confusione su quello che sta succedendo. A Medea viene tolto tutto, non può fare nulla, non è più nulla. Medea: “Ma ciò che io dico per me, male s’addice a te : la patria hai tu, la casa tua, agi di vita, consorzio di amici, io sola sono, senza patria, e oltraggio mio marito mi fa, che me rapiva da una barbara terra; e non ho madre, non fratello o parente, a cui rivolgere.”

Protagonista principale è la perdita, che risiede in ogni individuo e nel proprio vissuto di mancanza. Così se il partner è il riconoscimento che caratterizza il soggetto e lo rende unico, è inevitabile che in una situazione di promiscuità del compagno il fantasma della perdita si presenti puntuale e minaccioso. Da qui il vissuto di annientamento, facilmente riversabile verso il partner prima e verso il suo simbolo, i figli, poi.

DALLA DIPENDENZA DELLA VITTIMA ALL’AZIONE COME CARNEFICE

“Tutti vogliamo essere amati, ma desiderare una presenza o soffrire un’assenza è diverso dal non poter vivere privi dell’oggetto d’amore. In questo secondo caso l’insieme d’ esperienze, idee, fantasie, opinioni, rapporti, attività e progetti, che noi chiamiamo IO, si affievolisce diventando talmente subalterno al rapporto amoroso da esserne travolto”. (Marina Valcarenghi 2009)

In questo contesto ci si è soffermati sul problema dell’angoscia che la separazione crea nella donnamadre, talmente profonda e inficiante la stabilità della persona, da destare in alcuni casi anche il pensiero dell’infanticidio. “Potremmo definirlo “complesso di Medea” quello che porta le madri a uccidere i propri figli rovesciando d’un sol colpo la catena della generazione: ti ho dato la vita e ora ti do la morte.

La spinta verso il figlicidio è provocata dalla ferita causata dal trauma dell’abbandono. Se di fronte all’amore che univa nell’idillio iniziale Medea a Giasone il coro poteva ricordarci che “è la più grande delle fortune quando una donna va d’accordo con il proprio uomo”, Medea dopo il tradimento, subito come una ferita insanabile, ci mostra che “quando una donna si vede tradita nell’amore, la sua ferocia non conosce limiti”. (Massimo Recalcati 2014) Di fatto, quando si parla di relazioni violente ci si pone nell’ottica di vedere solo il violento come soggetto compromesso anche se, ad oggi, valutando la complessità del fenomeno, ci si rende conto che la compromissione è trasversale e bidirezionale.

L’uomo quanto la donna patiscono l’abbandono e la separazione, quasi come se fossero la perdita di pezzi fondanti di loro stessi, a tal punto da vedere la presenza dell’altro come necessaria per la propria e l’altrui sopravvivenza.

Una sorta di vuoto incolmabile che, ad esempio, conduce una mamma verso ciò che di più cruento possa esservi, l’assassinio del proprio figlio, in qualità di frutto del compagno dal quale si sente abbandonata. Il partner instaura quindi con la donna una sorta di gioco perverso, facendo leva sulla debolezza e sul bisogno di affetto e validazione della propria vittima.

La critica, la colpevolizza, la aggredisce, allo scopo di ottenere soddisfacimento alle proprie richieste a tal punto da innescarne una dipendenza assoluta. Tramite ciò lascia percepire all’altro il suo dominio e al tempo stesso il suo essere bisognoso di aiuto, creando in questo modo la condizione affinché questi sia condotto a corrispondere a ogni sua richiesta.

Con la menzogna il partner violento altera le situazioni a proprio favore, finendo con il confondere la vittima designata. Ascoltare maggiormente le proprie emozioni, le proprie idee, come degne di valore e come unica e vera bussola, serve dunque per percepire la giusta via da intraprendere e intuire i veri bisogni dei quali prendersi cura.

Tutto questo è ciò che la vittima è in grado di coglie solo parzialmente anche se spesso tutto ciò non viene ascoltato per paura di soffrire, di rimanere sola, di affrontare la sua condizione di vita e il tormento che tale condizione comporta. Un dolore continuo ed un progressivo abbassamento della propria autostima e del proprio senso di autoefficacia.

VEDIAMO COSA ACCADE NELLA RELAZIONE TRA VITTIMA E REO

Innanzitutto si può parlare di un condizionamento che si può desumere da tre passeggi che contraddistinguono relazioni di questa natura:

  • Appropriazione dell’altro
  • Dominazione che rende l’altro dipendente
  • Si vuole lasciare sull’altro un segno indelebile

Tutto questo si configura come processo di manipolazione psico-fisica tra le parti che conduce gradualmente a un consistente isolamento ed evitamento della rete relazionale. Nel tempo quindi si verifica una sorta di «omicidio psichico» della vittima attoo al controllo e al potere che il carnefice agisce nei confronti della vittima.

Tutto ciò si delinea attraverso un particolare stile comunicativo fatto di atteggiamenti paradossali, derisioni, menzogne, sarcasmi e disprezzo. Queste condotte hanno come fine ultimo la manipolazione affettiva, ovvero quella sorta di mobbing di coppia che presenta elementi fortemente distruttivi per il partner che lo subisce e che si trova condotto verso gli atteggiamenti che il violento desidera ottenere.

MECCANISMI DIFENSIVI IN GIOCO

La violenza che si consuma fra le pareti domestiche, solo in casi eccezionali, rappresenta un fenomeno improvviso, estemporaneo ed occasionale, solitamente in realtà assume le caratteristiche della ripetitività e della continuità, quasi quotidiana.

La partner, in questa situazione, inizia a sentirsi insicura, a provare paura e a svalutarsi tanto da sentirsi “pazza”. Le donne esposte per molto tempo alla violenza cominciano infatti a perdere l’autostima, il senso di sé, il concetto di realtà e la capacità di definire quello che succede intorno a loro. Il tutto conduce la donna a vivere una sensazione di graduale impotenza che non fa che aumentare i livelli già presenti di dipendenza dal partner.

La vittima di violenza si sente in colpa nei confronti del compagno per “essersele cercate”; risiede in lei infatti l’erronea convinzione che l’altro meriti una persona in grado di renderlo felice e ciò le suscita un perverso senso di responsabilità. Tramite il senso di colpa, il manipolatore può fare in modo che il proprio bersaglio senta di essere sbagliato, e percepisca la necessità di riparare, comportandosi come il manipolatore vorrebbe.

La donna, spesso, si sente quindi colpevole del cattivo andamento della relazione, come se non riuscisse a “sopportare abbastanza” o non sapesse “tacere quando necessario”, tutti atteggiamenti questi volti a tenere tranquillo il partner, che necessita infatti di una donna subordinata al suo volere. A fronte di quanto detto, attualmente numerosi studiosi hanno analizzato approfonditamente lo status della vittima e la tipologia di relazione che si instaura appunto tra la “vittima” e il “carnefice”.

Mendesohn si pose inizialmente delle domande che riguardavano il ruolo e la condizione della vittima in rapporto al sistema sociale e alla repressione penale. Si deve in particolar modo a lui il fatto di aver sostenuto l’esigenza di uno studio del ruolo vittima dal punto di vista della sua tutela, nonché della prevenzione, evidenziando come tale interesse fosse, allo stato attuale, soprattutto destinato all’autore.

Hans von Hentig, nel suo testo intitolato “The Criminal and His Victim” elabora il concetto di coppia criminale, un paradigma che ribalta la centralizzazione sul reo e il ruolo passivo della vittima per la formulazione dell’ipotesi di un autore e una vittima legati da una relazione indissolubile e significativa che li rende complici complementari della scena.

Tra la vittima e l’autore di reato si strutturano di fatto segni, messaggi, gesti significativi che contribuiscono attivamente alla commissione del reato.

GLI OPERATORI DI FRONTE ALLA VIOLENZA

Chi lavora quotidianamente con le donne vittime di violenza ne conosce bene i sensi di colpa, la diffidenza e il sospetto vissuti, soprattutto, se e quando decidono di allontanarsi dal partner. L’operatore che le accompagna in questi percorsi si trova a sua volta a vivere un traumatismo vicariante che lo sottopone a dei meccanismi di difesa di scissione che rischiano di farlo oscillare tra due posizioni estreme e diametralmente opposte:

  • AGGRESSORE COME MALATO DI MENTE : quindi deve essere curato
  • AGGRESSORE COME DELINQUENTE: deve essere punito senza pietà

Per poter gestire in maniera ottimale tale meccanismo di difesa del “soccorritore”, occorre una riflessione sull’aggressore che permetta agli operatori di poter porre correttamente il violento all’interno di questi due estremi, senza che vi sia lo sbilanciamento assoluto verso uno dei due.

Partendo innanzitutto dallo stato di coscienza dell’agente violenza, l’operatore si deve chiedere se la persona stia agendo IN PREDA AD ALLUCINAZIONI, VOCI IMPERANTI DI DELIRIO, STATO MELANCONICO, STATO ALTERATO DI COSCIENZA etc… sintomi quindi ascrivibili a una diagnosi orientata verso una forma di psicosi.

TALE CONDIZIONE FA VERTERE L’OSSERVAZIONE DELL’OPERATORE VERSO UNA PROBLEMATICA PSICHIATRICA IN CUI LA PERSONA VIVE SOGGIOGATA DA TALE STATO MENTALE E QUINDI IL LIBERO ARBITRIO NE RISULTA intimamente COMPROMESSO.

La complessità aumenta quando si parla dei disturbi di personalità. Il fatto che ognuno di noi sia l’esito di una storia famigliare e personale non deve trasformarsi in un determinismo sull’attualità delle nostre scelte e comportamenti.

Pertanto la complicazione ulteriore si avverte quando entra in campo la questione del libero arbitrio nella violenza. Quando bisogna considerare presente il libero arbitrio di fronte a un’azione violenta ripetuta nel tempo? Quando si parla di pazienti psichiatrici in preda a stati alterati di coscienza sicuramente il libero arbitrio risulta intaccato e quindi la persona subisce e agisce la propria sintomatologia. Nei disturbi di personalità però cosa si deve valutare? Il libero arbitrio si può considerare presente e integro?

“Una distinzione che indubbiamente permette che vi sia una prima scrematura accurata delle azioni violente,riguarda la sintonia presente tra gli atti violenti e la volontà della persona che li compie. Se l’atto e l’intenzionalità a commetterlo seguono la stessa direzione si parlerà di una persona EGOSINTONICA ovvero un soggetto in cui il libero arbitrio sarà intatto, perciò si potrà definire la persona in grado di poter scegliere di mettere in atto o meno tale comportamento. Diversamente quando azione e volontà seguiranno strade diverse si entrerà in contatto con soggetti EGODISTONICI in cui quindi il libero arbitrio ne risulterà profondamente compromesso, anche se non del tutto assente. Nel primo caso quindi ci si imbatterà in persone che rientreranno nell’ambito della delinquenza, punibili quindi secondo quanto definito in termini di legge, contrariamente invece si entrerà nel campo psichiatrico e quindi gli interventi necessari saranno più riabilitativi e/o curativi che meramente punitivi”.

MARINO ROBERTO 2013

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

Tali considerazioni risultano fondamentali quando si entra in contatto come soccorritori di fronte a rapporti di coppia violenti e/o in presenza di reazioni più o meno appropriate da parte della vittima. Gli operatori sono, infatti, tenuti a conoscere e gestire la propria emozionalità e creando un ambiente empatico e di comprensione della complessità del fenomeno. Risulta quindi importante che il sanitario abbia una serie di accortezze di atteggiamento verso la vittima che desidera un confronto che le possa dare uno spunto per poter scegliere di uscire da una relazione violenta.

QUALCHE INDICAZIONE UTILE PER GLI OPERATORI

  • Essere disponibili all’ascolto
  • Non avere fretta
  • Essere cortesi
  • Evitare gesti troppo familiari
  • Far sentire alla persona che le credete
  • Essere attenti all’altro
  • Rispettare la privacy e sottolinearla
  • Essere rispettosi dei modi e tempi della vittima
  • Essere rassicuranti

Di fronte ad una vittima è necessario creare un clima emozionale, altrimenti non vi sarà apertura! Per poter essere dunque empatici e sospendere il proprio giudizio, è innanzitutto necessario valutare, e avere costantemente presente, che la relazione violenta presenta una serie di aspetti di complessità da analizzare.

Solo così l’operatore potrà avere un maggior margine di contatto ed essere d’aiuto, altrimenti non vi sarà alcun possibilità d’intervento perché la persona si sentirà condannata e non supportata.

Le donne che si trovano infatti a vivere una relazione violenta, vivranno in modo estremamente combattuto e ambivalente, oltre che la relazione di coppia, anche la maternità, esito di tale “amore”.

Affinché quindi la donna possa parlare delle sue difficoltà e, in una certa misura, si possa prendere adeguatamente cura del proprio figlio, senza che tale aspetto possa sfociare in modalità violente, è necessario che si possa sentire accolta dagli operatori coi quali si interfaccerà. L’abbandono temuto dal partner è infatti parte integrante della donna, disposta a tutto proprio per evitare che ciò accada e questo elemento va tenuto ben presente.

“Gli operatori chiamati ad intervenire in situazioni di abuso si trovano di fronte ad una realtà attraversata da violente emozioni contraddittorie di panico, sollievo, rabbia, colpa, vergogna, disperazione, sconcerto e incredulità” Vassalli, Segreti di famiglia Il fine ultimo pertanto dovrebbe essere quello di “non lasciarsi condizionare da scelte di campo che sono condizionate più dall’ideologia di chi cura che non dalla condizione reale del paziente, in quel particolare momento evolutivo” (cfr. Rossi Monti M., “Spettro bipolare e pleiomorfismo. Variazioni sul concetto di spettro”, in Psichiatria di Comunità)

Medea: “(..) Io non ho forza di piú guardarvi, e son vinta dai mali. Intendo ben che scempio son per compiere; ma piú che il senno può la passione, che di gran mali pei mortali è causa”.